La scelta di passare a questa via d’accesso all’anca espone il chirurgo a un aumentato rischio di complicanze intra e post-operatorie. Ecco un’analisi della curva di apprendimento attraverso l’esperienza personale di due chirurghi che hanno scelto di intraprendere questa strada
Uno dei temi più dibattuti negli ultimi anni in ambito di chirurgia protesica dell’anca è sicuramente la via di accesso anteriore. Pur essendo stata descritta prima della metà del secolo scorso, ha guadagnato popolarità nel nuovo millennio grazie a due famosi chirurghi: un americano (Joel Matta) e un francese (Frédéric Laude).
«Sicuramente dal punto di vista strettamente anatomico è l’unica via che permette al chirurgo di accedere all’articolazione senza dover tagliare muscoli come accade invece nella via laterale o posteriore in tutte le varianti, ma divaricandoli attraverso un passaggio internervoso, ovvero tra muscoli innervati da nervi differenti. Questo permette al paziente un recupero funzionale a volte sorprendente e impensabile con altre metodiche – spiega Guido Antonini, responsabile della traumatologia d’urgenza dell’Ospedale San Carlo Borromeo di Milano –. È però uno di quegli argomenti dove si trovano schieramenti nettamente contrapposti: chirurghi che ne decantano i vantaggi e altri che oltre a non vederne sottolineano la difficoltà e la pericolosità della procedura per l’esposizione a possibili complicanze».
La letteratura
non dà ancora risposte
La letteratura non aiuta a derimere la questione perché vi si trovano risultati controversi, anche se in generale si sta assistendo a una sempre maggiore produzione scientifica sull’argomento e gli studi degli ultimi cinque anni stanno promuovendo la metodica. Sicuramente il numero di lavori sul trattamento con endoprotesi per le fratture dell’anziano sono minori rispetto a quelli sulle protesi totali per coxartrosi.
«Il punto critico nel posizionamento della protesi è senza dubbio il tempo femorale ovvero l’alloggiamento dello stelo nel canale midollare, infatti mentre la preparazione e la visualizzazione del cotile è ottimale, l’esposizione del femore e la sua protesizzazione può essere laboriosa – dice Antonini –. In letteratura si trovano lavori che allertano riguardo alla possibilità di causare fratture del femore durante le manovre o malposizionare lo stelo protesico, soprattutto nei primi casi». Insomma se da un lato i pazienti anziani affetti da frattura di femore sarebbero, per la loro fragilità, i migliori candidati a beneficiare dei vantaggi della via anteriore, dall’altro la peggior qualità dell’osso e dei tessuti farebbe pensare a un maggior rischio di complicanze, soprattutto nella fase di apprendimento della procedura e pertanto si potrebbe pensare di sconsigliare questo intervento in caso di frattura di collo femorale.
Dati e riflessioni
di due esperienze personali
Per tale motivo Guido Antonini ha pensato di organizzare uno studio sulla sua personale curva di apprendimento considerando solo i primi 50 casi di impianto di endoprotesi in pazienti anziani affetti da frattura di collo di femore e trattati con tecnica Amis (Anterior Minimally Invasive Surgery), che prevede l’utilizzo di un posizionatore dell’arto operato: «il dispositivo a mio parere rende l’intervento più riproducibile e standardizzato oltre a permetterne l’esecuzione con soli due chirurghi» ci ha detto Antonini –. Ho iniziato la mia esperienza dopo diverse visite presso centri specializzati, un corso su cadavere all’estero e due interventi con assistenza di un chirurgo esperto della metodica».
I risultati dello studio saranno visibili nella sessione e-poster al Congresso Siot di quest’anno e ve li anticipiamo nel dettaglio nella pagina a fianco. Per Antonini in ogni caso si tratta di risultati «incoraggianti per chi volesse avvicinarsi alla metodica in quanto le complicanze verificatesi sono sovrapponibili se non inferiori a quelle descritte in letteratura per la via laterale e posteriore. Credo che con una adeguata preparazione e l’utilizzo del controllo amplioscopico durante l’intervento sia possibile iniziare la metodica in sicurezza per il paziente anziano che è, a mio avviso, proprio per la sua intrinseca fragilità, il paziente ideale per questa tecnica mininvasiva».
Arriva alle stesse considerazioni anche il chirurgo Paolo Razzaboni, medico ortopedico di Rimini e Forlì e collaboratore della “Clinica Mobile” MotoGP, che abbiamo intervistato per registrare altre riflessioni sulla tecnica chirurgica e sulla curva di apprendimento personale. Per Razzaboni i fattori chiave della learning curve nella chirurgia mininvasiva per via anteriore sono «la meticolosità nella sequenza dei gesti chirurgici e la precisione».
Queste due esperienze individuali, seppur non codificate all’interno di rigide metodologie di ricerca, hanno però il merito di dare uno spaccato reale sul percorso di introduzione della via di accesso anteriore nella pratica clinica dei nostri chirurghi.
Andrea Peren
LEARNING CURVE: RIFLESSIONI CLINICHE SU TECNICA E PERCORSO DI APPRENDIMENTO

Paolo Razzaboni
Dottor Razzaboni, quando inizia la sua learning curve per la chirurgia mininvasiva?
Dopo la specializzazione nel 2006 presso gli Istituti Ortopedici Rizzoli di Bologna con un’esperienza di cinque anni di chirurgia protesica e dopo un’attività prevalentemente di traumatologia nei primi tre anni da dirigente medico all’Ospedale Morgagni di Forlì, verso la fine del 2009 il dottor Francesco Lijoi, allora direttore dell’unità di ortopedia, mi propose di andare in Belgio dal professor Erik De Witte per imparare la chirurgia protesica d’anca per via anteriore mininvasiva.
Non eravamo pienamente soddisfatti dei risultati clinici a distanza dei pazienti operati di protesi d’anca con le tecniche tradizionali, cioè con via laterale diretta e postero-laterale, e per questo volevamo approfondire il concetto di mininvasità attraverso la via anteriore per cercare di ridurre il rischio di lussazione descritto in letteratura – variabile tra l’1,5 e il 4,2% – e anche un certo grado di zoppia e di dolore residuo osservati nel post-intervento. Anche i dati del Registro dell’Implantologia Protesica (Ripo) supportavano quelle che erano le nostre impressioni.
Quanti interventi secondo lei sono necessari per diventare “confident” nella via anteriore?
Da assistente ho seguito una ventina di interventi in tutto nell’arco di quattro mesi, tra quelli eseguiti nelle nostre visite in Belgio e quelli effettuati a Forlì dal dottor Lijoi inizialmente insieme al professor De Witte e poi in maniera autonoma.
Le novità rispetto alle altre vie d’accesso erano subito chiare: riguardavano la posizione del paziente, la preparazione del campo operatorio, la diversa esposizione dell’articolazione, lo strumentario, nuovi gesti chirurgici.
Occupandomi di traumatologia, ho iniziato a eseguire la via anteriore come primo operatore nelle protesi totali e parziali d’anca su frattura; dopo un cadaver lab che mi ha aiutato a eliminare i dubbi sul posizionamento delle leve e dei retrattori, dopo trenta interventi eseguiti in sei mesi avevo già una buona padronanza della nuova via chirurgica.
Potrebbe sembrare un periodo breve rispetto a quanto viene descritto in letteratura quando si parla di learning curve per la via anteriore ma avere un bagaglio di esperienza traumatologica e di ortopedia protesica “tradizionale” maturate agli Ospedali Rizzoli e al Maggiore di Bologna mi ha dato una maggior sicurezza nell’approccio alla nuova tecnica.
Se disegnassimo la sua curva di apprendimento avrebbe un picco iniziale di sei mesi e poi…
Poi la curva tenderebbe ulteriormente a salire perché la vera difficoltà, una volta appreso il metodo, è stata la gestione degli imprevisti e delle complicanze come per esempio le fratture meta-diafisarie o del gran trocantere, le anche displasiche, i cotili con deficit di sostanza ossea, le pregresse fratture del collo femorale. Il fatto di aver sempre proceduto con meticolosità e precisione seguendo le indicazioni del professor De Witte è stato come seguire un percorso sicuro. Se avessi iniziato a “personalizzare” la tecnica, come è capitato a molti, forse mi sarei trovato di fronte a complicanze inaspettate che probabilmente mi avrebbero fatto abbandonare questa strada precocemente senza ottenere i risultati di oggi.
Cosa è cambiato rispetto alla fase iniziale di apprendimento?
La velocità di esecuzione. Eseguo gli stessi gesti chirurgici con la stessa accortezza del primo intervento per via anteriore del 2009 ma già dopo due anni impiegavo il 50% di tempo in meno.
A cosa è importante soprattutto prestare attenzione durante la curva di apprendimento?
All’inizio della curva di apprendimento è fondamentale possedere la conoscenza dell’anatomia. Accuratezza e precisione nell’esecuzione del gesto tecnico sono elementi chiave della mia learning curve ma l’aspetto più importante è stato senza dubbio la meticolosità del gesto chirurgico. Parlo di meticolosità riferendomi alla sequenzialità dei gesti appresa da De Witte dalla preparazione del campo, al posizionamento delle leve e retrattori fino al controllo radiologico intraoperatorio che eseguiamo sempre perché ci dà una sicurezza in più su posizionamento e dimensioni dell’impianto protesico.
Nella mia esperienza personale non ho mai visto eseguire questo intervento con le tecniche classiche nello stesso modo, seguendo una riproducibilità metodologica. Il valore aggiunto della via anteriore è che è più riproducibile per chi la deve imparare ma anche per chi deve analizzare i risultati dei pazienti.
Ha riscontrato differenze tra teoria e pratica?
Sì. Per esempio, molti sostengono che selezionare il paziente ideale per la via anteriore sia fondamentale perché esiste una precisa indicazione per i pazienti giovani, con alte richieste funzionali, non obesi, non troppo muscolosi, eccetera. Nella mia esperienza ho rilevato invece il contrario: cioè proprio perchè il paziente è un paziente giovane, magro, potrebbero andare bene tutte le vie chirurgiche.
In realtà i grandi vantaggi della via anteriore si vedono soprattutto nel paziente anziano grazie al risparmio dei tessuti muscolari e quindi al minor dolore post-operatorio che rende più facile il recupero per questo tipo di pazienti. Su queste basi ho iniziato a eseguire la via anteriore anche sulle fratture del collo del femore nell’anziano e nel paziente obeso, perchè sulla porzione anteriore dell’anca si trova meno tessuto adiposo rispetto alla regione laterale o posteriore essendo l’anca più superficiale. Qualche difficoltà si riscontra invece nei pazienti tozzi e muscolosi, ma a mio parere, dopo 7 anni di esperienza di via anteriore, il 90% dei pazienti ha l’indicazione a questa via chirurgia per il primo impianto.
Nella mia esperienza non ho riscontri neppure sulla riduzione delle perdite ematiche perché il sanguinamento osseo è paragonabile alle altre vie chirurgiche; è solo grazie all’uso dell’acido tranexamico per via endovenosa che si riduce il sanguinamento intra e post-operatorio.
Ci sono state evoluzioni nella sua learning curve?
Continuamente. Innanzitutto il passaggio dagli steli femorali lunghi a quelli corti più adatti alla mininvasività per il risparmio di osso, fatta eccezione per pazienti molto anziani o con grave osteoporosi.
Poi il passaggio all’incisione trasversale bikini che ha sostituito da due anni quella longitudinale sulla quasi totalità di pazienti, anche se prevalentemente di sesso femminile. Se da un lato l’incisione bikini riduce in parte la visibilità dell’articolazione, dall’altro offre una notevole cosmesi delle cicatrici cutanee e maggior salvaguardia delle fibre del muscolo tensore della fascia lata.
Liana Zorzi
LEARNING CURVE: DATI PERSONALI SUI PRIMI 50 CASI

Guido Antonini
L’approccio anteriore diretto nella chirurgia protesica dell’anca è conosciuto da oltre mezzo secolo ma ha guadagnato popolarità negli ultimi anni. Guido Antonini, responsabile della traumatologia d’urgenza dell’Ospedale San Carlo Borromeo di Milano, riporta che i vantaggi descritti in letteratura dipendono dal rispetto della innervazione e vascolarizzazione muscolare: minori perdite ematiche, più veloce recupero nel post-operatorio, ridotto rischio di lussazione. Il chirurgo che sceglie di passare a questa via deve necessariamente passare attraverso una curva di apprendimento che lo espone al rischio di complicanze intra e post-operatorie. In letteratura sono presenti numerosi lavori che allertano dell’esposizione a numerose complicanze nelle fasi di apprendimento. Un adeguato training che comprende l’assistenza a interventi effettuati da chirurghi esperti, la frequentazione di cadaver lab e l’affiancamento di un tutor per i primi casi può ridurre eventuali complicanze dipendenti dall’inesperienza.
Il chirurgo milanese ha così deciso di registrare i dati dei suoi interventi per studiare la curva di apprendimento di un chirurgo con esperienza sulla via laterale che ha iniziato con la tecnica Amis (Anterior Minimally Invasive Surgery) con posizionatore dell’arto operato attraverso un dispositivo dedicato (Medacta).
I risultati dello studio, pubblicati in un e-poster al Congresso Siot di Torino, si riferiscono ai primi 50 casi consecutivi di impianto di endoprotesi su frattura effettuati da Guido Antonini tra settembre 2014 e febbraio 2016 e includono dettagli quali tempi operatori, complicanze intraoperatorie (malposizionamento delle componenti, fratture ecc.), tempi di verticalizzazione, complicanze post-operatorie (perdite ematiche, lussazioni, infezioni, reinterventi per altro motivo ecc).
Dopo aver analizzato i dati raccolti, il chirurgo è stato in grado di definire le caratteristiche della sua personale curva di apprendimento con la nuova tecnica. «I tempi operatori medi sono passati da 82 minuti nei primi 10 casi a 54 minuti negli ultimi 10 – ci ha anticipato Antonini –. Le perdite ematiche hanno richiesto 1,1 unità di GRC e si sono verificati 4 decessi a un follow-up medio di 10 mesi. Per quanto rigurada le complicanze intra-operatorie abbiamo registrato una “cricca” sul calcar non trattata e un cambio di testina per errata lunghezza; per quanto riguarda invece le complicanze post-operatorie si è verificata una lussazione e una infezione superficiale del sito chirurgico. Altre complicanze meno severe che abbiamo registrato sono tre arrossamenti della ferita, due ematomi, due casi di dolore al ginocchio e un caso di disestesia del nervo femorocutaneo».
Una volta rivalutata questa esperienza personale su 50 casi consecutivi, il chirurgo ha potuto tirare le somme: «L’approccio anteriore diretto all’anca si è confermato vantaggioso rispetto a quello laterale grazie a una intrinseca mininvasività che permette una riduzione delle perdite ematiche e una precoce verticalizzazione, particolarmente importanti per il paziente anziano fragile, e può essere eseguito in sicurezza se preceduto da un adeguato training permettendo così di poter fruire dei vantaggi di questa metodica senza esporsi a rischi di complicanze».
Andrea Peren