Grazie ai nuovi farmaci l’artrite reumatoide è oggi passibile di remissione, ma solo a condizione di diagnosi precoce e trattamento tempestivo, prima che si producano danno osseo e complicanze extra-articolari. Questa finestra temporale può essere molto limitata
Nonostante l’ampia diffusione a livello mondiale, l’ormai dettagliato inquadramento patogenetico e clinico e la disponibilità di linee guida terapeutiche dedicate, l’artrite reumatoide è ancora una patologia penalizzata da ritardi diagnostici e sottotrattamento. Il problema è particolarmente sentito in ambito specialistico, soprattutto da quando l’avvento dei nuovi farmaci biotecnologici, bDMARDs (biologic disease-modifying anti-rheumatic drugs) e “small molecules”, ha determinato una svolta decisiva nella gestione della malattia, modificandone radicalmente la prognosi fino a farvi entrare l’intento della “remissione”.
La Società italiana di Reumatologia (Sir) è impegnata da anni, come d’altra parte l’Associazione nazionale malati reumatici (Anmar), nella realizzazione di progetti di comunicazione volti a migliorare sul territorio nazionale l’atteggiamento di medici e pazienti nei confronti degli obiettivi di cura.
Una recente indagine realizzata da Clicon Health Economics&Outcome Research a partire da database clinici e amministrativi sui pazienti con artrite reumatoide diagnosticati nel quinquennio 2013-2017 ha infatti messo in evidenza come in Italia vi sia una quota consistente, pari a circa il 10%, di pazienti eligibili per il trattamento con farmaci biotecnologici sulla base dei criteri fissati dalle ultime raccomandazioni della European league against rheumatism (Eular), che tuttavia non li ricevono.
Abbiamo chiesto a Roberto Gerli, direttore della struttura complessa di Reumatologia dell’Azienda Ospedaliera di Perugia e attuale presidente della Sir, di descriverci come si stanno modificando le prospettive terapeutiche per l’artrite reumatoide.
Professor Gerli, per quale motivo oggi si sente il bisogno di porre l’accento sulla necessità di far conoscere e promuovere il concetto di remissione come traguardo standard del trattamento dell’artrite reumatoide?
Fondamentalmente perché è un concetto relativamente nuovo, legato all’introduzione dei farmaci antireumatici biotecnologici a partire da una ventina di anni fa, con il quale i pazienti e tutto sommato anche una parte dei medici non specialisti hanno ancora poca dimestichezza.
È invece estremamente importante che si sviluppi una diffusa consapevolezza del fatto che oggi l’artrite reumatoide è passibile di remissione, non solo dei sintomi ma anche dei meccanismi fisiopatologici che ne determinano la progressione, in quanto tale obiettivo è realizzabile in una buona parte dei pazienti ma a condizione che un trattamento efficace venga instaurato precocemente, prima che si producano il danno osseo e le eventuali complicanze extra-articolari, e in quanto la finestra temporale critica per ottenerlo può essere molto limitata, dell’ordine di mesi o al massimo uno-due anni a seconda dell’aggressività della malattia.
Viceversa quello che accade ancora troppo spesso è che la diagnosi sia tardiva, che vengano equivocati i segnali suggestivi (come l’interessamento poliarticolare e simmetrico e prevalente alle piccole articolazioni, il dolore esacerbato dall’immobilità, la rigidità mattutina prolungata), che non venga attuato un monitoraggio stretto dell’attività di malattia e che venga protratto un trattamento non abbastanza efficace, perdendosi così l’opportunità di prevenire le conseguenze irreversibili del processo infiammatorio.
Oggi abbiamo a disposizione nel campo dei nuovi farmaci un repertorio variegato rispetto a tipologia e proprietà farmacodinamiche, che comprende anticorpi monoclonali, proteine ricombinanti e small molecules, e quindi farmaci che bloccano l’azione del TNF-alfa o delle interleuchine proinfiammatorie, che si legano ai linfociti B oppure che agiscono come inibitori di recettori intracellulari della via JAK-STAT interferendo con la trasduzione dei segnali delle citochine.
Con quali strumenti si valutano l’attività di malattia e quindi l’eventuale remissione?
Sul piano clinico si utilizza un sistema di score del dolore e dei segni di flogosi applicato alle singole articolazioni più comunemente coinvolte: in genere il DAS-28, e tra gli esami di laboratorio sono rilevanti ovviamente gli indici infiammatori, soprattutto la proteina C reattiva.
Ma le informazioni più pertinenti le otteniamo da alcune indagini strumentali: in primo luogo dall’ecografia articolare con metodica Power-doppler, che consente di valutare l’entità dei processi infiammatori in atto, e in casi selezionati dalla risonanza magnetica, che è in grado di visualizzare il cosiddetto edema osseo, un’alterazione del tessuto che precede i fenomeni erosivi ed è ancora reversibile. Un ruolo sia pure marginale può essere rivestito dalla radiologia tradizionale, che serve per escludere o verificare la presenza di un danno osseo già avanzato, mentre in generale non trova impiego la TC.
Esistono fattori predittivi della possibilità di ottenere una remissione stabile della malattia?
Esistono fattori predittivi della tendenza della malattia alla progressione rapida e al coinvolgimento extra-articolare, che si verifica principalmente a livello polmonare con un’interstiziopatia che porta a fibrosi e a livello cardiovascolare con una precoce degenerazione aterosclerotica.
Oltre ai livelli plasmatici degli indici infiammatori e agli eventuali segni di erosione ossea, gli elementi indicativi di una maggiore aggressività della malattia sono la presenza del fattore reumatoide e degli anticorpi anti-citrullina. Esiste poi in molti soggetti una suscettibilità genetica, possibilmente suggerita anche dalla familiarità, a sviluppare la malattia, sulla quale molto probabilmente si innestano fattori ambientali: accertato, per esempio, è l’effetto favorente e anche dotato di valore prognostico negativo del fumo di sigaretta.
Al contrario, non abbiamo ancora la capacità di prevedere la probabilità di remissione della malattia nel singolo paziente, e va da sé che attualmente l’identificazione di biomarker specifici in questo senso è uno dei principali focus della ricerca clinica a livello mondiale.
Quale consiglio darebbe al medico non specialista nell’approccio diagnostico al paziente con dolori articolari?
Innanzitutto di fare mente locale sulle red flags cliniche citate e quindi valutarne l’invio a un centro reumatologico, tenendo conto della rilevanza di un intervento terapeutico precoce ed eseguito secondo la tempistica indicata dalle linee guida. Le raccomandazioni Eular aggiornate nel 2019 pongono per esempio l’indicazione di verificare il raggiungimento del target terapeutico a 3 e 6 mesi dall’inizio di un trattamento, incominciando con l’apparato farmacologico tradizionale, per modificarlo tempestivamente in caso di inefficacia introducendo un bDMARD o un JAK-inibitore.
Monica Oldani
Giornalista Tabloid di Ortopedia
OBIETTIVO REMISSIONE, ANCHE L’INFORMAZIONE AL PAZIENTE HA UN RUOLO: «SERVONO MALATI PIÙ COMPETENTI»_Lo scorso dicembre ha preso il via, per iniziativa della multinazionale farmaceutica AbbVie, una campagna di sensibilizzazione internazionale intitolata “Talk Over RA”, che nella sua declinazione italiana è attivamente sostenuta con una serie di iniziative collaterali dall’Associazione nazionale malati reumatici.
Silvia Tonolo, presidente di Anmar, ne spiega la rilevanza dal punto di vista dei pazienti, sottolineando che l’associazione sta operando in questi mesi per dare massima visibilità alla campagna, sul proprio sito web e i social network, proprio per i due temi fondamentali che ne sono oggetto, vale a dire la comunicazione medico-paziente e l’obiettivo della remissione. «Questi due temi sono entrambi critici – afferma –. Il primo perché nel corso di una visita reumatologica standard difficilmente il paziente riesce ad affrontare con il curante i molteplici aspetti della propria condizione, che riguardano non solo l’obiettività clinica ma anche l’impatto della sintomatologia sulla qualità di vita e il vissuto soggettivo; il secondo perché della possibilità di ottenere una remissione della malattia molti sono ancora poco consapevoli».
A portare alla luce tali problematiche con la concretezza dell’esperienza personale dei pazienti sono i risultati dei sondaggi di Anmar: nel più recente, condotto nel 2019 su 1.300 soggetti intervistati sul concetto di remissione, solo il 46% ha dichiarato di esserne stato informato dal proprio medico, il 31% da altri, mentre il 23% non ne ha mai sentito parlare; quanto al significato del termine il 26% del campione ha fornito definizioni errate oppure non ha saputo rispondere.
«L’invito rivolto al paziente dalla campagna a “parlare più forte” con il proprio medico va proprio nella direzione di stabilire tra i due una maggiore condivisione della gestione della malattia e di rendere i malati più competenti, attivamente coinvolti nella cura e collaboranti – continua Silvia Tonolo –. Oggi sappiamo che il traguardo terapeutico può essere la remissione e che questo significa poter riconquistare una vita pressoché normale, ma dobbiamo diffondere la cognizione che questa opportunità è offerta da due condizioni, una diagnosi precoce e un trattamento appropriato, che ne presuppongono necessariamente una terza: una completa e continuativa sintonia tra il reumatologo e il suo paziente».