Il timing di 48 ore nelle fratture di femore è una regola assoluta? Meglio l’osteosintesi o un intervento di revisione per le fratture periprotesiche? Come scegliere la via chirurgica di accesso e quando è vantaggioso il ricorso a un approccio combinato? A queste ed altre domande proveranno a rispondere i maggiori esperti di traumatologia
Il fast track delle fratture di femore prossimale over 65, le fratture periprotesiche, le vie chirurgiche d’accesso: sono i tre argomenti centrali che verranno approfonditi nella decima edizione del Trauma Meeting, che si terrà nell’ormai abituale sede di Riccione da mercoledì 4 a venerdì 6 ottobre.
Il convegno nazionale organizzato dagli Ortopedici e traumatologi ospedalieri d’Italia (Otodi) si configura ormai da un decennio come l’evento nazionale più importante in Italia nell’ambito della traumatologia ortopedica e per molti chirurghi è diventato un appuntamento fisso durante l’anno.
Abbiamo chiesto un’anticipazione dei temi clinici che verranno discussi ai tre presidenti del congresso: Giorgio Maria Calori (direttore dell’Unità operativa di chirurgia ortopedica riparativa e risk management dell’Istituto Ortopedico Gaetano Pini-Cto di Milano), Bruno Michele Marelli (direttore del Dipartimento di ortotraumatologia generale e chirurgie ortopediche specialistiche dell’Istituto Ortopedico Gaetano Pini-Cto di Milano) e Vincenzo Zottola (direttore dell’Unità operativa di ortopedia e traumatologia dell’Ospedale Sant’Anna di Como).
I FATTORI DI RISCHIO DELLE FRATTURE PERIPROTESICHE

Bruno Michele Marelli
Professor Marelli, perché le fratture periprotesiche sono in aumento?
Negli ultimi decenni si è assistito a un esponenziale aumento delle procedure di sostituzione articolare, in particolare per quanto riguarda anca, ginocchio e spalla.
Secondo i dati ricavati dalle Schede di dimissione ospedaliera (Sdo) nel 2010, in Italia, sono state impiantate circa 157.000 protesi di primo impianto, di cui 59.631 artroprotesi d’anca, 56.664 artroprotesi di ginocchio e 2.959 protesi di spalla; questo a fronte dei circa 102.000 impianti effettuati nel 2001. Questo trend sembra destinato a mantenersi elevato considerato l’invecchiamento della popolazione, l’ampliamento delle indicazioni chirurgiche e il miglioramento delle tecnologie di produzione e impianto.
Dato l’aumento del numero di interventi di protesizzazione, si stima quindi che anche il numero di eventi fratturativi periprotesici sia destinato ad aumentare. Il miglioramento delle tecniche di fissazione e l’ampia gamma di mezzi a dispozione del chirurgo hanno permesso di migliorare l’outcome chirurgico e clinico al fine di garantire un più precoce ritorno alle attività della vita quotidiana.
Quali fattori di rischio predispongono alle fratture periprotesiche e come si possono ridurre i rischi?
I fattori di rischio più comuni sono rappresentati dall’età avanzata, dall’osteopenia/osteoporosi, dall’utilizzo cronico di corticosteroidi, dalle patologie infiammatorie croniche, dall’osteolisi asettica e dalla presenza di stress riser.
Tutti questi fattori, molti dei quali non modificabili, vanno tenuti in considerazione nella pianificazione dell’iter terapeutico appropriato. Anche la revisione protesica, il tipo di impianto utilizzato e la tecnica chirurgica adottata possono avere una notevole influenza nell’insorgenza di una frattura periprotesica. Parte di questi fattori può essere prevenuta attraverso controlli clinici e radiografici di routine, istruendo il paziente ad adottare un comportamento consono nei mesi successivi all’intervento chirurgico e soprattutto avendo massima cautela nel gestire un paziente a rischio di frattura.
Spesso, per diverse articolazioni, si pone il dilemma tra sintesi e revisione; quali fattori fanno propendere per l’una o l’altra opzione?
Valutata la complessità di queste fratture e del loro trattamento, risulta di primaria importanza avvalersi di classificazioni riconosciute a livello internazionale al fine di garantire un’appropriata gestione terapeutica, conservativa o chirurgica. Tra le più importanti risultano quelle di Vancouver e Paprosky per l’anca e di Rorabeck e Taylor per il ginocchio.
Per fratture con stabilità dello stelo protesico (Vancouver B1) è sufficiente un’osteosintesi open con cerchiaggi metallici o con placche e viti, viceversa in caso di mobilizzazione della componente femorale (Vancouver B2-B3) è indicata una revisione dello stelo protesico.
Per quanto riguarda le fratture periprotesiche di cotile il principio di management mira alla valutazione della stabilità delle colonne e quindi alla conseguente stabilità dell’impianto e dell’interfaccia osso/impianto.
Per quanto concerne il ginocchio si pone indicazione a intervento di revisione solo nel tipo 3 secondo Rorabeck e Taylor, dove abbiamo una netta scomposizione dei frammenti ossei associata ad una protesi mobilizzata. Al contrario, in casi di protesi non mobilizzata, si procede a intervento di osteosintesi con chiodo endomidollare o con placca a stabilità angolare, in base al tipo e al grado di scomposizione della frattura.
LE CONTROVERSIE SULLE VIE CHIRURGICHE DI ACCESSO

Vincenzo Zottola
Professor Zottola, quali fattori incidono maggiormente nella scelta delle vie di accesso?
Per prima cosa bisogna considerare il pattern di frattura.
Le fratture articolari richiedono una riduzione perfetta e dunque l’accesso dovrà consentire di raggiungere, ridurre e stabilizzare i frammenti secondo passaggi preordinati.
Le fratture meta epifisarie richiedono il ripristino degli assi nel rispetto della vascolarizzazione e sarà dunque il versante di maggior scomposizione quello che deve essere raggiunto per ridurre e rendere stabile il focolaio di frattura.
Grande attenzione va riservata alle condizioni delle parti molli, ovvero alle aree di sofferenza cutanea e alle zone di esposizione che vanno accuratamente evitate, e che condizionano le strategie di approccio.
Gli stessi mezzi di sintesi sempre più dedicati al distretto anatomico, oltre ovviamente all’esperienza del chirurgo, possono essere ulteriori fattori che condizionano la scelta.
Esistono, in traumatologia, controversie riguardo alle vie di accesso ideali. Ci può fare qualche esempio?
A questa e ad altre domande sarà proprio il Trauma Meeting a dover dare delle risposte.
Certamente controversie esistono sia sulla via di accesso da preferire, sia se siano opportuni approcci combinati. Quando gli accessi utili sono più di uno, si discute su quale debba essere eseguito per primo.
In discussione avremo, tra l’altro, il ruolo dell’accesso transdeltoideo all’omero prossimale, quello della via posteriore nelle lesioni del piatto tibiale e quale approccio sia da preferire per ridurre le fratture trasverse del cotile: anteriore, posteriore e, se entrambi, da quale partire.
Tutto questo può essere trasferito ai vari distretti anatomici e anche qui l’esperienza del chirurgo riveste un ruolo importante.
C’è stata un’evoluzione, specie in questi ultimi anni, nelle scelte delle vie di accesso?
Sicuramente un fattore è stato l’allargamento delle indicazioni chirurgiche, un esempio per tutti la traumatologia della pelvi e dell’acetabolo.
Un ulteriore contributo è dato dall’affermarsi delle tecniche mininvasive e dalla crescente attenzione al risparmio tessutale.
Oggi poi abbiamo a disposizione mezzi di sintesi, a basso profilo, con una configurazione che si adatta al distretto anatomico e che richiede accessi dedicati.
Difficile dire, in qualche caso, se la richiesta sia venuta dal perfezionamento di una tecnica chirurgica o se i mezzi di sintesi abbiano avuto un ruolo nell’evoluzione delle tecniche stesse. Basterebbe portare ad esempio quello degli accessi posteriori alla tibia prossimale.
Determinante, a mio avviso, l’affermarsi della pianificazione chirurgica e l’uso sistematico delle opportunità diagnostiche offerte dalla Tac 3D. Per ognuno di noi, e soprattutto per i più giovani, sarà importante seguire questa evoluzione attraverso lo studio, la conoscenza degli strumenti, la simulazione e i cadaver lab.
IL FAST TRACK DELLE FRATTURE DI FEMORE PROSSIMALE OVER 65

Giorgio Maria Calori
Professor Calori, com’è cambiato il trattamento delle fratture di femore prossimale nei pazienti che hanno superato i 65 anni?
Nel trattare un tema delicato come quello della traumatologia e particolarmente delle modalità di trattamento delle fratture di femore prossimale in pazienti over 65 anni, non vi è dubbio che debbano essere poste alcune premesse fondamentali.
Indipendentemente da opinioni personali, seppure espresse da autorevoli esperti, che vedremo sottoposte in ogni caso a un confronto scientifico socratico in occasione del prossimo Trauma Meeting Otodi, non vi è dubbio che oggigiorno non sia più accettabile discorrere esclusivamente di tipologia di frattura e osteosintesi.
Nel 2017 ritengo sia imprescindibile valutare il paziente nella sua globalità, come soggetto a rischio variabile in considerazione delle comorbidità di cui egli stesso è portatore, che ne traducono il reale fattore di rischio finale contribuendo a definirne il residuo potenziale di guarigione.
Dopo i 65 anni, “la vita è adesso” per recitare i versi di una canzone… E oggettivamente il paziente cosiddetto anziano non può e non deve attendere per poter essere reinserito a una vita normale, come anche deve poter beneficiare di cure che assicurino la minore incidenza di complicazioni prevenibili. La disabilità è, infatti, paradossalmente ancora più penalizzante per il paziente fragile poiché agisce in aggravamento di una condizione pregressa già compromessa.
L’intervento entro 48 ore è un’esigenza imprescindibile anche in questi pazienti?
Perché possa riappropriarsi della propria autonomia, esitando postumi ragionevolmente contenuti e tali da escludere interminabili degenze riabilitative o immotivato aggravio di costi indiretti e sociali, a mio giudizio un simile paziente critico non sempre deve essere rigorosamente sottoposto a correzione chirurgica entro le 48 ore; credo che necessiti certamente di inquadramento clinico-strumentale immediato e che la terapia chirurgica sia tempestiva, ma effettuata quando sia stata ottenuta una sufficiente stabilizzazione della criticità organica nei giusti termini, avvalendosi di un costante monitoraggio generale.
Quali sono le migliori strategie terapeutiche?
Riguardo la scelta chirurgica, non solo placche e viti o chiodi, ma anche sostegno farmacologico, nuove tecnologie se utili e cure rieducative differenziate; tutte ragionate ed erogate in modo sartoriale.
Il punto di vista è introdurre nuovi criteri classificativi che rendano più omogeneo e sicuro il trattamento di tali complesse patologie, nella concezione sincretistica del problema e soprattutto per corretta indicazione.
Dal punto di vista speculativo, tali categorie possono essere desunte dalla considerazione e dallo studio scientifico ex-post dei fallimenti, in modo da tradurre ex-ante criteri certi e verosimilmente maggiormente predittivi del risultato, che possano essere oltremodo applicati favorevolmente a ciascun caso indirizzandone il trattamento più appropriato con maggiore chance di guarigione.
Tutto ciò assume ulteriore rilievo data la necessità di sviluppare linee guida scientifiche e comportamentali, che possano non da ultimo motivare e giustificare la scelta terapeutica adottata nel singolo caso, requisito inemendabile come espresso nel nuovo testo di legge in tema di responsabilità professionale; che possa, infine, garantire concretamente il rimborso della cura, in quanto riconosciuta appropriata, favorendo in tal modo anche la sostenibilità della spesa sanitaria complessiva e il mantenimento delle disponibilità terapeutica continuativa.
Renato Torlaschi
Giornalista Tabloid di Ortopedia
LA CLASSIFICAZIONE NON UNION SCORING SYSTEM (NUSS)
Giorgio Maria Calori ha codificato la Classificazione Nuss (Non Union Scoring System), che inquadra problematiche sia meccaniche che biologiche con ampio spazio anche alle più recenti tecnologie biotech.
«Questa classificazione – spiega Calori – è stata censita e considerata in numerosi lavori scientifici internazionali sulle maggiori riviste con impact factor; è peraltro utilizzata istituzionalmente in molti Paesi europei ed extra-europei. Attualmente stiamo cercando di ampliarne il significato al di fuori del campo strettamente traumatologico, nello sforzo di definire una ulteriore Classificazione Parss (Patient at Risk Scoring System) di valore trasversale, che possa ottimizzare e meglio inquadrare pazienti fragili con problematiche diverse». Uno studio di Regione Lombardia-Eupolis con Università Bocconi-Cergas ha recepito ed elaborato questa filosofia in un recente studio analitico sulla valorizzazione dei processi di cura nei percorsi di protesizzazione di anca, ginocchio e spalla, utilizzando proprio questa classificazione.
«Sono profondamente convinto che per elaborare procedure e dirimere analisi sia necessario stratificare il campione di studio disponendo di strumenti più adeguati – sottolinea Calori –. Nell’accogliere per dovere e convinzione la norma che regolamenta entro 48 ore l’esecuzione del trattamento chirurgico in fratture prossimali di femore nei pazienti over 65 anni, in attesa di disporre di conclusioni più avanzate, magari elaborate con il metodo critico sopra riferito, ritengo che il problema debba comunque essere sempre approcciato nel rispetto di tre punti fondamentali. Il primo è l’evidenza scientifica, ricavata da studi clinici prospettici randomizzati, successivamente verificati con robusti trial multicentrici di ricerca sviluppati in rete; il secondo è la sostenibilità economica, per poter garantire a tutti l’accesso e la qualità delle cure, che differentemente verrebbero presto escluse dalla lista Lea; infine la norma giuridica, corrisposta con linee guida specifiche atte ad affidare terapie corrette nella pratica assistenziale e nel contempo difendere ogni giorno la scelta professionale di noi tutti, preservandoci da negativi giudizi medico-legali e fastidiosi contenziosi, alcune volte iniqui ed eccessivamente penalizzanti».