
Francesco Biggi
Nel percorso professionale di un chirurgo ortopedico si può leggere la trasformazione della realtà occupazionale comune a tutta la categoria. L’ospedalità privata sarà il futuro professionale per la maggior parte dei chirurghi?
Francesco Biggi, uno tra gli ortopedici ospedalieri più noti d’Italia, che è stato presidente dell’Associazione ortopedici traumatologi d’Italia (Otodi) ed è autore di numerose pubblicazioni su riviste nazionali e internazionali, fino a pochi mesi fa primario presso l’Ospedale di Belluno, ha deciso di passare alla sanità privata. «Ho scelto di lasciare la sanità pubblica per la privata – spiega Biggi – perché dal Policlinico di Monza mi è stata fatta un’offerta, oltre che interessante dal punto di vista operativo e imprenditoriale, anche di direzione scientifica, a occupare la posizione che era del professor Francesco Pipino. C’è dunque l’aspirazione di poter svolgere un lavoro diverso da quello che tipicamente si associa alla sanità privata che, contrariamente a quanto si crede, non si riduce a budget e percentuali. Inoltre, purtroppo, in 35 anni di carriera, di cui gli ultimi venti fatti come primario, ho visto cambiare drammaticamente e in peggio la sanità pubblica».
Professor Biggi, sono molti quelli che hanno fatto una scelta come la sua? C’è un travaso occupazionale dal pubblico al privato?
Questo è ormai un dato di fatto e, al di là del numero di persone che compie questa scelta, posso portare le mia personale esperienza: negli anni passati come primario ho fatto un’enorme fatica a trovare persone valide che venissero a occupare i posti liberi in organico, mentre nella sanità privata questo problema è molto meno evidente, nonostante dalle università italiane esca un numero ridotto di specializzati.
Oggi nella sanità pubblica la parola d’ordine è fare i conti con il continuo calo delle risorse; quindi ormai tutti i direttori generali non pensano ad altro che a tagliare e, quando uno va in pensione o si dimette, gli organici non vengono reintegrati. E non è solo chi cerca un più facile guadagno a rivolgersi al privato; io ho finalmente ritrovato qualcuno che valuta i candidati in rapporto ai loro curricula, ai loro titoli e alle loro casistiche operatorie, come professionisti e non secondo quanto avviene nella sanità pubblica dove, soprattutto a un certo livello, le scelte sono esclusivamente di tipo politico.
Come si stanno trasformando, di conseguenza, gli ospedali pubblici?
Ho l’impressione che gli ospedali pubblici siano ormai sempre più indirizzati a diventare ospedali per acuti; siccome la sanità pubblica non è più in grado di garantire tutto a tutti dalla culla alla tomba, allora si fa in modo che all’interno delle strutture pubbliche venga almeno garantita l’emergenza urgenza. E infatti succede che in Regioni come la Lombardia già adesso circa il 70% della chirurgia d’elezione – pensiamo agli impianti delle protesi d’anca e di ginocchio – viene fatta nelle strutture private accreditate.
Quali sono le difficoltà a lavorare nel pubblico?
Io ho iniziato la carriera ritenendo intanto che quella del medico non fosse un mestiere ma una professione, caratterizzata e scandita dalle capacità che si traducono nei titoli accumulati, nelle specializzazioni e nelle casistiche operatorie. Al momento dei concorsi, questi titoli permettevano di partire da zero per poi diventare assistente, aiuto, primario in un ospedale periferico e poi magari in uno regionale. Questa logica adesso non esiste più ed è stato istituito il ruolo unico della dirigenza medica, con l’ulteriore perversione di chiamare dirigenti di primo livello gli ex aiuti assistenti e di secondo livello gli ex-primari, tanto per generare confusione tra la gente.
Con l’istituzione dei direttori generali, si è sancita definitivamente l’appropriazione della sanità pubblica da parte della politica e siamo arrivati ormai al punto in cui non esiste più nomina che non sia indirizzata politicamente.
Insieme al rapporto esclusivo con il Servizio sanitario nazionale, che è diventato obbligatorio, si è prodotta un’enorme difficoltà a creare dei progetti all’interno di questo sistema, che si è estremamente impoverito.
In Lombardia ho scoperto un mondo totalmente nuovo, in cui si è deciso politicamente di mettere sullo stesso piano pubblico e privato, dando a entrambi i settori le stesse possibilità, con il cittadino che può scegliere a chi affidarsi, il che mi pare un principio sanissimo. Ma non è così dappertutto: in Veneto prevale infatti nettamente il sistema ospedaliero pubblico: pensi che l’unica casa di cura non accreditata ha dovuto chiudere perché non è riuscita a reggere ai costi.
Le difficoltà del pubblico derivano dalle risorse insufficienti?
Il Gruppo Policlinico di Monza, oltre alla sede centrale ha altre nove cliniche dislocate tra Piemonte e Lombardia – oltre all’ospedale cardiochirurgico di Bucarest, costruito ex novo e che è già il primo della Romania, in cui probabilmente prima o poi si inizierà a fare anche ortopedia – garantisce ogni mese circa 3.000 stipendi ai dipendenti del gruppo e, essendo una struttura accreditata, riceve dal Servizio sanitario nazionale gli stessi rimborsi di un ospedale pubblico a fronte, ad esempio, di una protesi d’anca. La differenza è che con gli stessi soldi si riesce a fare qualità e a produrre anche degli utili, perché c’è comunque un approccio imprenditoriale.
Invece le Usl sono spesso carrozzoni con una schiera di apparati impiegatizi e amministrativi, distretti sociosanitari e così via: non credo che in Italia ce ne sia una in attivo. Inoltre ci sono troppi piccoli ospedali.
Ma la tensione a ridurre le spese c’è. Dunque è male indirizzata?
È importante che una siringa costi dieci centesimi a Belluno come a Palermo, ma io in questi anni ho dovuto fare estenuanti riunioni di budget con i direttori generali e istruire gare per la fornitura di protesi con l’unico scopo di spuntare i 50 euro in meno.
Quanto al taglio degli ospedali inutili, si sta procedendo con estrema lentezza. Nella Regione Veneto, già due estati fa erano state pubblicate le nuove schede secondo cui bisognava arrivare a tagliare un certo numero di ospedali, ma in gran parte queste disposizioni restano ancora lettera morta.
Anche per interventi comuni come le fratture di femore dell’anziano, di fatto le piccole strutture sono costrette a centralizzare i pazienti negli ospedali di riferimento perché, pur richiedendo un intervento banale, bisogna fare il possibile per prevenire complicazioni; per esempio, diversi casi sono a rischio emorragico durante l’intervento, dato che molti di questi pazienti sono in cura con anticoagulanti. E nei piccoli ospedali in genere non ci sono i reparti di rianimazione, di terapia intensiva o di diagnostica interventistica nel caso ci sia da embolizzare un vaso. Perché allora non si potenziano gli hub e non si chiudono quelli inutili dove non si cura più nessuno?
Anche nel privato, del resto, per raggiungere un certo livello di appropriatezza è necessario che si raggiungano certe dimensioni: è il concetto di high volume, che si è affermato negli Stati Uniti e si sta diffondendo ovunque.
Ma la logica di profitto che sta alla base delle imprese private non porta, nel caso delle case di cura, al rischio per il medico di non disporre di personale assistenziale sufficiente?
Nella sala operatoria in cui lavoro adesso ho uno strumentista, un infermiere di sala, più un terzo infermiere che però lavora su più sale. Pochi mesi fa, nella struttura pubblica, in sala c’erano uno strumentista, due infermieri di sala, un infermiere di anestesia e un tecnico radiologo. Per lo stesso intervento di protesi d’anca, oltre al chirurgo ci sono in un caso cinque persone e nell’altro due. Ma chi ha stabilito che in sala operatoria la dotazione della sala debba prevedere un infermiere dedicato all’anestesista e uno al chirurgo? Qui lo stesso infermiere fa entrambi i lavori senza nessun problema.
C’è invece chi ritiene il privato penalizzante riguardo all’attività formativa e scientifica: cosa ne pensa?
In Italia assistiamo a una difficoltà nella preparazione delle nuove classi chirurgiche, specie nella formazione di base che nessuna università è in grado di dare in modo completo. Si pensi alla problematica della formazione su cadavere: in Italia ad oggi c’è una sola struttura, la Nicola’s Foundation di Arezzo; per il resto è noto che nel nostro Paese non si può utilizzare il cadavere tranne che per didattica, nel corso universitario di anatomia. Siamo così costretti a migrare da tutte le parti.
Ma proprio al Policlinico di Monza, a Novarello in provincia di Novara, dove c’è anche il centro sportivo che fa capo al gruppo, si sta lavorando affinché l’anno prossimo possa entrare in funzione quello che sarà il secondo cadaver lab del nostro Paese. Verrà messo a disposizione anche della Società italiana chirurghi ortopedici dell’ospedalità privata (Sicoop) per indirizzare tutti i giovani chirurghi che afferiscono alla sanità privata a fare formazione sul campo, altrimenti davvero problematica da realizzare. Questo esempio mostra la vitalità della sanità privata e smentisce il luogo comune che nel privato non si faccia attività scientifica; anche su questo ci si sta muovendo e da tempo c’è una società di riferimento, la Sicoop appunto, in cui tantissimi specialisti di ottimo livello si confrontano e fanno attività scientifica.
Quanto alla qualità clinica, l’esempio della Lombardia è illuminante: ci sono gruppi – pensiamo anche al Gruppo Ospedaliero San Donato con l’Istituto Ortopedico Galeazzi di Milano o all’Istituto Clinico Humanitas di Rozzano – dove operano alcuni tra i migliori chirurghi italiani, che hanno dei curricula scientifici estremamente importanti. Purtroppo, negli ultimi anni, nel pubblico ho visto esattamente il contrario, e parlo soprattutto dei concorsi per i direttori di struttura in cui i curricula sono stati completamente calpestati.
Renato Torlaschi
Giornalista Tabloid di Ortopedia
ASSOGENERICI: «SENZA INTERVENTI, ITALIA MERCATO INSOSTENIBILE PER IL FARMACO GENERICO»
«Ancora una volta si sta ricorrendo, nei confronti della spesa farmaceutica, alla politica dei tagli. Solo che oggi, con la nuova determinazione dei prezzi di riferimento in base ai raggruppamenti terapeuticamente assimilabili, si comprimono in modo insopportabile proprio i medicinali generici, che fino a oggi hanno garantito alle finanze pubbliche centinaia di milioni di euro l’anno di risparmi» ha dichiarato il presidente di AssoGenerici Enrique Häusermann. Secondo l’associazione, pur in assenza di significativi aumenti nell’utilizzo dei farmaci generici, si ricorre a misure di riduzione dei prezzi, di fatto mettendo a rischio la sostenibilità economica di questa industria.
«Vorremmo fosse chiaro che se non si cambia la rotta, su questa strada ci sia avvia a rendere l’Italia un mercato insostenibile per il generico, dove i margini ormai si valutano in centesimi di euro per confezione – denuncia Häusermann –. È possibile che nel breve termine ci sia chi può sostenere questa situazione, ma non a lungo e, soprattutto, si rischia che il Servizio sanitario si trovi a dipendere da uno o due produttori soltanto. Con tutti i pericoli che derivano in termini di certezza nel tempo delle forniture. Né vale dire che la spesa farmaceutica sta di nuovo aumentando: al netto dei medicinali innovativi, quello cui assistiamo è anche l’effetto indotto dall’invecchiamento della popolazione e dall’aumento delle malattie croniche. Chiediamo che la nostra industria non venga più sottoposta a misure di questa portata che determina lo schiacciamento di un settore economico produttivo di valore che ogni anno garantisce sostenibilità al Servizio sanitario nazionale, un più ampio accesso alle cure a una larga platea di pazienti e un importante impatto occupazionale per l’intero comparto industriale nazionale».
Inoltre AssoGenerici fa presente che «ancora non sono stati rimossi quei vincoli, già vietati e censurati dall’Unione Europea, alla rapida entrata in commercio dei generici».
A. P.