Al congresso della Società italiana della caviglia e del piede si fa il punto sulle nuove conoscenze di medicina rigenerativa e sulle performance delle protesi, sempre più affidabili grazie all’evoluzione degli impianti e degli strumentari
Il 21 e 22 settembre si tiene il 38° congresso della Società italiana della caviglia e del piede (Sicp) a Riva del Garda, in provincia di Trento. L’incontro si sviluppa in due giornate e tratta una tematica di grande interesse e attualità: “La patologia cartilaginea della caviglia: dalla biologia al metallo”. Il congresso è presieduto da Fabrizio Cortese, direttore del reparto di Ortopedia e traumatologia dell’Ospedale Santa Maria del Carmine di Rovereto, e da Domenico Mercurio, dirigente medico presso la medesima struttura.
«Come sappiamo – affermano i due presidenti – l’evoluzione scientifica nel campo del trattamento delle lesioni condrali e dell’artrosi ha uno sviluppo continuo e stimolante. Il congresso ha l’ambizione di definire l’attuale stato dell’arte di questo importante capitolo della chirurgia del piede e della caviglia aprendo alle terapie più recenti senza perdere di vista la medicina basata sull’evidenza scientifica».

Domenico Mercurio
LA BIOLOGIA: TECNICHE RIGENERATIVE, DALLE INFILTRAZIONI ALLA CHIRURGIA
Dottor Mercurio, quali tecniche di medicina rigenerativa sono efficaci nel distretto piede-caviglia?
La medicina rigenerativa sfrutta il potenziale di guarigione e rigenerazione che è presente nei nostri tessuti. Come in altri, anche nel distretto piede-caviglia è possibile sfruttarne le potenzialità con tecniche non chirurgiche, infiltrative, e tecniche complementari alla chirurgia.
Per quanto riguarda la terapia infiltrativa, a sua volta è giusto distinguere le infiltrazioni intrarticolari dalle infiltrazioni intra e peritendinee. Le infiltrazioni intrarticolari vengono eseguite a scopo condroprotettivo, analgesico e antinfiammatorio. Tra le sostanze utilizzate possiamo citare il plasma ricco di piastrine (Prp). Rispetto ad altri distretti, a livello del piede e della caviglia il Prp ha trovato un grande spazio nel trattamento delle tendinopatie: peronei, tibiale posteriore, tendinopatia achillea.
Un’altra tecnica prevede l’utilizzo delle cellule mesenchimali provenienti da adipe; tale procedura permette di isolare dal tessuto adiposo cellule multipotenti, ossia con capacità rigenerativa, sfruttandone soprattutto la componente stromale. La tecnica, rispetto alla precedente, è gravata dal fatto che prevede una “liposuzione” per prelevare le cellule adipose e stromali dall’addome; i risultati clinici, al livello della caviglia, seppur promettenti, non sono ancora supportati da una letteratura con un lungo follow-up.
Grande importanza rivestono poi le tecniche di medicina rigenerativa a supporto delle tecniche chirurgiche. A livello articolare, un esempio lampante è l’utilizzo di cellule provenienti da midollo veicolate da scaffold collagenici nelle lesioni di dimensioni intermedie del domo astragalico o, come riportato da recenti studi, nelle lesioni focali della metatarso-falangea.
Altro ambito di supporto delle tecniche rigenerative alla chirurgia è rappresentato dall’utilizzo di gel piastrinici (gel collagenici arrichiti del sopracitato Prp) nelle tendinopatie croniche e lesioni acute adiuvanti alla riparazione-ricostruzione chirurgica.
In ogni caso è assolutamente necessario riferirsi alle evidenze scientifiche e non prospettare risultati impossibili. Sappiamo come la cartilagine sia uno dei tessuti, come il tessuto nervoso, che allo stato attuale non siamo ancora in grado di ricreare. Quello che possiamo fare con tecniche sia infiltrative che con procedure chirurgiche artroscopiche o open è risolvere o migliorare il sintomo del paziente e mirare a una guarigione cartilaginea il più vicino possibile a quella nativa.
Quali sono le principali controindicazioni?
Controindicazione assoluta è rappresentata dalla presenza di uno stato infettivo. Controindicazione teorica è invece costituita da quegli stati in cui il potenziale angiogenico e proliferativo delle procedure rigenerative vadano a coadiuvare il potere proliferativo di patologie autoimmuni o oncologiche, tuttavia in tal senso non esistono forti evidenze della letteratura.
Altra controindicazione relativa è rappresentata dalle condizioni cliniche in cui, per gravità del quadro degenerativo artrosico, non ci si possa aspettare dalle procedure descritte un beneficio significativo, rendendo la procedura superflua.
A seconda delle tecniche e delle situazioni, quali sono le tempistiche di recupero?
Per quanto riguarda i tempi di recupero dopo l’utilizzo di medicina rigenerativa, sia che si parli di tecniche infiltrative o tecniche a supporto della chirurgia, dovrebbe essere sempre la clinica a guidare la ripresa delle attività. In linea di massima possiamo tuttavia affermare che, per quanto riguarda le tempistiche, parliamo di settimane nel caso di terapia infiltrativa e di mesi (non meno di tre) quando parliamo di tecniche che supportino la chirurgia.
Per quanto riguarda l’imaging, alcuni nostri studi hanno dimostrato come il quadro Rmn, soprattutto se eseguito precocemente, sia poco correlato con lo stato clinico del paziente: generalmente l’immagine da risonanza necessita di molti più mesi rispetto al quadro clinico per normalizzarsi.
Dottor Mercurio, quando la medicina rigenerativa è alternativa alla chirurgia e quando invece può essere complementare?
Nei quadri di pre-artrosi o di condropatia incipiente, soprattutto a livello dell’articolazione della tibiotarsica, è possibile pensare alla medicina rigenerativa infiltrativa come una possibile soluzione temporanea, volta a sfruttare gli effetti condroprotettivi delle cellule mesenchimali, un effetto ottenibile soprattutto in pazienti giovani e meno in pazienti anziani.
In secondo luogo è possibile sfruttare l’oramai noto effetto antinfiammatorio e analgesico del Prp o delle cellule mesenchimali provenienti da adipe. Tali soluzioni possono procrastinare la chirurgia o rappresentare un’alternativa a scopo palliativo in pazienti non operabili o che rifiutano la chirurgia.
Nelle lesioni condrali o osteocondrali isolate è frequente il connubio tra chirurgia e medicina rigenerativa. Esempio pratico è l’utilizzo di membrane collageniche arrichite di cellule mesenchimali provenienti da midollo osseo nelle lesioni osteocondrali dell’astragalo.

Fabrizio Cortese
IL METALLO: PROTESI AFFIDABILI, TECNICHE E STRUMENTARI SEMPRE PIÙ PRECISI
Dottor Cortese, per quali motivi si fanno sempre più protesi di caviglia, in Italia e nel mondo?
Il numero di protesi di caviglia sta crescendo progressivamente in tutto il mondo. La spiegazione è sicuramente duplice. Da una parte il miglioramento dei materiali e degli strumentari e dall’altra la crescita nella capacità dei chirurghi nel gestire questo tipo di intervento.
Ricordiamo come l’artrosi di caviglia si associ spesso a deformità post-traumatiche o a lesioni legamentose che obbligano il chirurgo, oltre all’impianto della protesi, ad altri gesti chirurgici di riallineamento delle deformità (osteotomie sovramalleolari o del retro-mesopiede) o di stabilizzazione legamentosa.
Quali sono le tecnologie emergenti nella chirurgia protesica della caviglia?
Come in altri distretti, anche la chirurgia protesica della caviglia sta vivendo profondi mutamenti e si sta spostando sempre più verso la customizzazione sia delle mascherine per i tagli ossei, sia delle componenti protesiche. Ormai diversi modelli protesici consentono al chirurgo di avere stumentari creati “su misura” per il paziente sulla base di studi TC eseguiti nel periodo preoperatorio con protocolli paziente-specifici. Il vantaggio di questi strumentari (Psi, Patient Spacific Instrumentation) sono rappresentati naturalmente dalla maggior precisione nell’esecuzione dei tagli ossei, ma anche nella riduzione del tempo chirurgico – che si associa a riduzione del rischio infettivo – e nella riduzione dell’esposizione alle scopie intraoperatorie per i chirurghi.
Un ulteriore sviluppo è rappresentato dalla customizzazione degli elementi protesici; allo stato attuale queste tecnologie sono a diposizione per casi particolarmente complessi, in cui ci si trovi di fronte a grave perdita del bone stock soprattutto astragalico (casi di missed talus o necrosi vascolare), ma in un futuro prossimo potrebbe esserci un’evoluzione e una maggior disponibilità di questo tipo di tecnologia.
Dalla traumatologia all’artrosi, quando è necessaria la protesi?
L’artrosi di caviglia, a differenza di anca e ginocchio, si sviluppa nel 70/80% dei casi in seguito a un trauma, dalle fratture ai gravi traumi distorsivi. Per questo motivo è sicuramente meno frequente rispetto alle articolazioni colpite principalmente da artrosi primaria, ma interessa paziente più giovani e attivi. È stato stimato inoltre come la disabilità che deriva dall’artrosi della caviglia sia paragonabile a quella secondaria alla cardiopatia ischemica.
Partendo da questo presupposto risulta intuitivo come sia di fondamentale importanza la qualità del trattamento che effettueremo come traumatologi in caso di fratture che riguardino i malleoli, il pilone tibiale, l’astragalo e nei casi di instabilità post-traumatica. È comunque importante sottolineare come il danno alla cartilagine correlato al trauma determini di per sé un rischio di evoluzione artrosica che prescinde dalla qualità del trattamento chirurgico e va sempre comunicato al paziente.
Quali sono i vantaggi rispetto all’artrodesi? Quali sono i rispettivi ambiti di applicazione?
L’artrodesi ha rappresentato per molti anni il gold standard per il trattamento dell’artrosi di caviglia. Con l’evoluzione della protesica attualmente questo assioma non è più valido.
La protesica di caviglia risulta avere il grande vantaggio, rispetto all’artrodesi, di garantire una certa mobilità alla tibio-tarsica, una condizione che riduce lo stress sulle articolazioni vicine preservandole da una possibile secondaria evoluzione artrosica.
Questo, naturalmente, non vuole assolutamente dire che l’artrodesi non abbia più uno spazio, in quanto esistono casi in cui per vari aspetti, sia legati alla qualità ossea sia alle richieste funzionali del paziente, risulta ancora adesso l’indicazione più corretta.
Quali problematiche tecniche o cliniche restano da risolvere o da affinare?
La biomeccanica della caviglia risulta essere assolutamente complessa. Il movimento di flesso estensione si accompagna a un movimento rotatorio collegato in particolare alla conformazione anatomica della cupola astragalica.
Il design attuale delle protesi in commercio, anche di quelle definite “anatomiche”, rappresenta una semplificazione che non ricrea perfettamente la cinematica della caviglia sana. Inoltre, rispetto alla protesica di ginocchio e anca, ad oggi ancora non abbiamo dati sicuri circa la sopravvivenza a lungo termine degli impianti e questo rappresenta un grande punto interrogativo, soprattutto per i pazienti più giovani e attivi.
Dottor Cortese, qual è il percorso clinico associato all’intervento e al post-intervento di protesi di caviglia?
Il paziente candidato a protesi di caviglia, nella nostra unità operativa, esegue una Tac con protocollo dedicato per la produzione delle mascherine customizzate che, come abbiamo già descritto, ci consentiranno una tecnica più precisa e “tagliata su misura”. Una volta pronto lo strumentario – occorrono circa sei-otto settimane per consentire agli ingegneri di processare le immagini Tac e produrre le mascherine con stampante a 3D – il paziente potrà essere sottoposto all’intervento.
Dopo l’intervento il paziente rimane ricoverato per uno-due giorni e successivamente prosegue il decorso post-operatorio a domicilio. Le prime due settimane il paziente rimane immobilizzato in doccia per consentire alla ferita di guarire senza complicanze. Dopo la rimozione dei punti inizierà la fisioterapia per il recupero dell’articolarità e del carico.
Quali risultati si possono ottenere?
L’obiettivo di un intervento di protesi di caviglia è quello di permettere al paziente la ripresa delle sue normali attività quotidiane riducendo il dolore e la limitazione funzionale. Il mantenimento di una certa articolarità consentirà al paziente un ciclo del passo il più fisiologico possibile e una preservazione delle articolazioni vicine dalla possibile evoluzione artrosica.
Soprattutto al paziente giovane non possiamo promettere il recupero di attività fisica ad alto impatto, come la corsa o l’arrampicata, ma possiamo cercare di concedergli il recupero di una bella passeggiata senza dolore!
Renato Torlaschi
Giornalista Tabloid di Ortopedia