
Diego Fornasari
«Nel trattamento del dolore cronico bisogna essere creativi» dice il farmacologo Diego Fornasari. Facciamo il punto sulla fisiologia del dolore, sulle classificazioni e sulle terapie farmacologiche, dal paracetamolo ai Fans, fino agli oppiacei
Il dolore è un fenomeno assolutamente fisiologico, che ci consente se possibile di prevenire o comunque di contenere i danni che il mondo esterno può causare all’organismo.
A partire da questa premessa Diego Fornasari, farmacologo presso il Dipartimento di biotecnologie mediche e medicina traslazionale dell’Università di Milano, ha aperto un corso dedicato al low back pain descrivendo i meccanismi che producono la sensazione del dolore, in un processo «estremamente complesso del quale noi oggi percepiamo qualcosa come se guardassimo in una stanza attraverso il buco della serratura: conosciamo più cose rispetto a pochi anni fa, ma molto di più è quello che ancora non sappiamo».
Tutto parte da uno stimolo, di natura meccanica, chimica o termica che viene catturato dai nocicettori, i sensori del dolore presenti un po’ dovunque nel corpo e soprattutto nella pelle, in alcuni organi interni, nella polpa dentaria e nel periostio. Lo stimolo viene trasdotto, ossia produce una attività elettrica e poi trasmesso, con un meccanismo neurologico attraverso il quale raggiunge il cervello. C’è poi una modulazione, in cui il segnale doloroso può essere amplificato o inibito sia prima che dopo l’arrivo alle aree corticali. La modulazione è attivata da diversi input e, oltre allo stesso stimolo doloroso, possono intervenire fattori emotivi, processi cognitivi, sostanze endogene ma anche farmaci o tecniche antalgiche. La fisiologia del dolore è completata da quel processo elusivo che è la percezione, attraverso il quale il segnale nocicettivo diventa fenomeno soggettivo, con risposte variabili da un individuo all’altro. In generale si possono distinguere una via ascendente, in cui l’informazione viaggia dalla periferia al cervello da una discendente in cui, in svariati casi, la sensazione dolorosa viene soppressa, grazie al rilascio di neurotrasmettitori come la noradrenalina e la serotonina. Proprio la via discendente che libera noradrenalina è responsabile per esempio dell’analgesia da stress, meccanismo biologico che impedisce di percepire il dolore in condizioni di tensione, come per esempio durante un combattimento.
Classificare il dolore
La conoscenza della fisiologia del dolore è fondamentale per capire in cosa consista la transizione verso il dolore cronico caratterizzato, come rileva Fornasari, non tanto dalla durata, come abitualmente si crede, ma «dal cambiamento delle regole del gioco, ed è su questo che si innesta la terapia farmacologica». Ecco che allora un primo strumento utile per orientarsi meglio è una classificazione del dolore, che si può distinguere in nocicettivo, infiammatorio acuto, infiammatorio cronico e neuropatico, oltre a quello misto in cui sono presenti componenti diverse e ad altre tipologie come il dolore meccanico strutturale, quello per cui ad esempio una persona obesa sente un dolore alle ginocchia a causa del carico del peso sull’articolazione.
Il dolore nocicettivo, del tutto fisiologico, è quello che compare in reazione a un evento lesivo, per esempio di natura traumatica. Il dolore infiammatorio è legato appunto alla presenza di una infiammazione, che può interessare diverse strutture ed è caratterizzato dalla attivazione dei nocicettori periferici; se quello acuto rientra ancora in un ambito fisiologico, con il dolore infiammatorio cronico entriamo nella patologia, così come nel caso del dolore neuropatico, associato ad alterazioni permanenti della struttura anatomica e dei rapporti funzionali dei neuroni spinali e cerebrali. «Nell’infiammazione, gli agenti sensibilizzanti primari – spiega Fornasari – sono le prostaglandine; sono prima di tutto loro che sensibilizzano a livello periferico; se poi il dolore persiste sono probabilmente le citochine a dare fastidio. Naturalmente questi impulsi raggiungono la sinapsi centrale, che si modifica a sua volta con l’apertura dei recettori Nmda del glutammato; il calcio è il secondo messaggero, che attiva le chinasi, che vanno nel nucleo della cellula nervosa e ne modificano l’espressione genica. Nel momento in cui andiamo verso una cronicizzazione, si ha insomma una profonda modificazione della via del dolore. Ma parlando di mal di schiena interessa anche il dolore neuropatico, che spesso subentra progressivamente complicando il quadro del dolore infiammatorio cronico e prevede interventi farmacologici che non possono essere semplicemente antinfiammatori».
Terapie farmacologiche a confronto
Ma quali sono le strategie terapeutiche per contrastare il dolore cronico? Le conoscenze delle vie del dolore ci indicano che le strade possibili sono tre: ridurre la sensibilizzazione periferica, ridurre la sensibilizzazione centrale o potenziare le vie discendenti.
«Ad agire a livello periferico – ricorda il farmacologo milanese – sono i farmaci antinfiammatori non steoidei, i Fans, tra cui gli inibitori selettivi della COX-2, che possono essere utilizzati ma in maniera oculata e per tempi stabiliti a causa degli effetti avversi. Ci sono inoltre i glucocorticoidi e anche tra questi principi la scelta deve essere attenta, visto che non sono tutti uguali ma hanno caratteristiche farmacocinetiche diverse».
Per ridurre la sensibilizzazione c’è invece il paracetamolo, con efficacia limitata ma che può essere somministrato a lungo «ed è interessante anche perché i suoi meccanismi sono complementari con quelli di quasi tutti gli altri farmaci. Possiamo anche agire bloccando i canali del calcio e dunque il passaggio degli impulsi dolorosi, diminuendo la sensibilizzazione centrale della sinapsi; a questo scopo abbiamo però farmaci (come la chetamina o il metadone) che hanno una marea di effetti avversi e quindi sono pochissimo utilizzati al di fuori del setting ospedaliero. Abbiamo poi i farmaci che vanno sui recettori oppiodi: quelli che con una classificazione un po’ antiquata vengono definiti oppiacei deboli (codeina, tramadolo, buprenorfina) o forti (come morfina e ossicodone), agonisti dei recettori e quindi in grado di potenziare il meccanismo analgesico».
La terza possibilità è quella di potenziare le vie discendenti, e per raggiungere questo obiettivo si usano farmaci che provengono da un setting diverso, quello psichiatrico: «si tratta degli inibitori della ricaptazione della serotonina (Ssri) e della noradrenalina (Nari), grazie ai quali questi neurotrasmettitori persistono più a lungo, producendo un effetto analgesico».
Ma Fornasari indica una strategia ancora migliore: combinare i trattamenti terapeutici, agendo così su più fronti contemporaneamente, con l’ulteriore importante vantaggio di poter ridurre il dosaggio dei farmaci e con esso gli effetti avversi.
Come spesso accade, la conferma arriva dauna revisione Cochrane (1), secondo la quale nel dolore neuropatico l’associazione di due farmaci permette di ottenere risultati migliori.
In questo senso, un farmaco molto interessante è il tapentadolo che, con una sola molecola, permette di colpire due bersagli: si tratta infatti di un analgesico centrale che ha due diversi meccanismi di azione, essendo agonista dei recettori ? e inibitore del reuptake della noradrenalina. È un oppioide più potente della morfina estremamente efficace sul dolore nocicettivo, viscerale, infiammatorio e neuropatico.
L’opzione dei farmaci oppiacei
Sull’utilizzo degli oppiacei nella terapia del dolore cronico è in corso un dibattito che si sta sviluppando specialmente oltreoceano: danno dipendenza?
«Quello che si è visto – spiega Diego Fornasari – è che il rischio di dipendenza c’è ma non è generalizzato; per esempio, dopo i sessant’anni non si diventa dipendenti. Esistono fattori di rischio per la dipendenza, che può svilupparsi in pazienti giovani o che hanno problematiche psichiatriche; inoltre, chi ha avuto una dipendenza precedente sicuramente la riproduce».
Ma si può quantificare questo rischio? Gli studi prospettici di cui disponiamo oggi ci mostrano che circa tre pazienti su cento sviluppano dipendenza: un dato piuttosto basso, che indica come la dipendenza non sia il problema principale legato all’utilizzo degli oppiodi per trattare il dolore cronico. Tuttavia, esattamente come accade per esempio con i Fans, bisogna usarli con cautela e nei casi in cui sono davvero indicati. Un aspetto importante è che non dobbiamo cronicizzare la terapia: se prescrivo un oppiaceo devo dire al paziente per quanto tempo, altrimenti il paziente si spaventa e rifiuta il farmaco. Quando l’oppiaceo avrà svolto il proprio compito, di bloccare il passaggio eccessivo degli stimoli dolorosi attraverso la sinapsi centrale, occorre diminuire progressivamente il dosaggio e cercare qualcos’altro, come si fa con gli antidepressivi: nel trattamento del dolore cronico bisogna essere creativi».
Giampiero Pilat
1. Chaparro LE, Wiffen PJ, Moore RA, Gilron I. Combination pharmacotherapy for the treatment of neuropathic pain in adults. Cochrane Database Syst Rev. 2012 Jul 11;7:CD008943.
RAPPORTO LEGGE 38: OPPIACEI IN CRESCITA MA LIVELLI
DI CONSUMO SONO ANCORA BASSI
Sono stati resi noti in maggio i dati del rapporto sullo stato di attuazione della legge 38/2010 sulle cure palliative e la terapia del dolore. Dati che, come ha spiegato il ministro della Salute Beatrice Lorenzin, «dimostrano che l’uso delle terapie contro il dolore non è più un tabù e che sono sempre di più le persone che ricevono un’assistenza adeguata nel momento di massima fragilità».
Nel rapporto si legge di un aumento contenuto del consumo dei farmaci analgesici non oppioidi tra il 2012 e il 2014, mentre per gli analgesici oppioidi l’incremento è stato maggiore: del 26% su scala nazionale e di oltre il 30% in alcune regioni, ma nonostante questo incremento l’uso degli oppioidi in Italia rimane marginale.
«Il 17% della popolazione mondiale risiede negli Stati Uniti e in Canada, dove avviene il 92% del consumo globale di oppioidi e derivati della morfina – ha spiegato Guido Fanelli, presidente della Commissione ministeriale per l’attuazione della Legge 38 –. Il consumo medio procapite di questi farmaci è pari a 800 mg di equivalenti in morfina nella popolazione statunitense, 0,64 mg nei Paesi dell’Africa sub-sahariana, 2 mg in Italia. Il rischio che abbiamo a livello internazione è la double failure: se fossimo troppo restrittivi nel contenere l’uso degli oppioidi, rischieremmo di impedirne l’accesso alla stragrande maggioranza dei Paesi del mondo; all’estremo opposto, con la carenza di attenzione si rischierebbe l’abuso che si sta verificando negli Stati Uniti. In Italia abbiamo livelli di consumo bassi, come confermato anche da questa analisi. Dobbiamo, quindi, continuare a crescere in maniera appropriata e regolamentata» ha concluso l’esperto.