
Bernardo Pavolini
La fissazione esterna, tecnica antica ma sempre di attualità, viene oggi ottimizzata grazie a software che guidano il chirurgo nelle correzioni su tutti i piani dello spazio. Il corretto ricorso alla fissazione esterna potrebbe anche ridurre i casi di infezione profonda
Già 400 a.C. Ippocrate descrisse una sorta di fissazione esterna per stabilizzare una frattura di tibia. Il trascorrere dei secoli è stato caratterizzato da una lunga e fantasiosa serie di soluzioni, fino a che, negli anni Cinquanta del secolo scorso, il russo Gavriil Ilizarov sviluppò un nuovo metodo per trattare fratture, deformità e altri difetti ossei, che i Paesi occidentali conobbero almeno un decennio dopo, ma a cui diedero subito una grande eco mediatica.
Intuendo che la vascolarizzazione dell’osso è l’elemento chiave per la guarigione della frattura, Ilizarov scoprì che è possibile ottenere una formazione di nuovo osso attraverso una distrazione lenta e progressiva. La popolarità della tecnica ha subito alti e bassi, ma si è rinnovata fino ai nostri giorni, trovando numerose applicazioni che possono offrire ottimi risultati clinici.
Il 3 e 4 maggio a Milano (Palazzo delle Stelline) la Società italiana di fissazione esterna (Sife) presieduta da Bernardo Pavolini, direttore dell’unità operativa ortopedica dell’area provinciale di Siena della Asl Toscana Sud Est, farà il punto sulla fissazione esterna nel trattamento delle fratture dell’arto inferiore.
Dottor Pavolini, la fissazione esterna, dopo essere stata ampiamente utilizzata in passato, è oggi utilizzata da pochi traumatologi. Il motivo è legato a precise evidenze scientifiche o ad altre ragioni?
Guardando alla storia dell’ortopedia, credo che la fissazione esterna, così come altre metodiche, abbia avuto e avrà fasi alternanti di popolarità. Abbiamo assistito, non solo in Italia, a una vera esplosione quando la fama di Ilizarov e i risultati entusiasmanti che mostrava portarono molti a credere che fosse la soluzione definitiva per una vasta gamma di patologie, anche traumatiche e infettive, con tempi brevissimi di guarigione. In realtà, come tutti i trattamenti, necessita di una tecnica attenta e rigorosa, senza poter ottenere miracoli. Ha dei campi dove, se correttamente impiegata, consente risultati insuperabili, ma un uso eccessivamente esteso nel passato è stato di sicuro controproducente.
Di recente, però, la sintesi esterna sta trovando nuove applicazioni anche in combinazione con quella interna, secondo protocolli in studi internazionali.
La situazione all’estero, nelle altre scuole ortopediche, è differente o sovrapponibile?
Anche all’estero la situazione è variegata, esistono Paesi come i latinoamericani e la Russia dove l’utilizzo è diffuso, altri come gli Stati Uniti dove lo è meno. I motivi sono molteplici e non sempre dipendenti dai reali vantaggi di un metodo rispetto agli altri.
Quali sono i quadri traumatologici per cui il fissatore esterno rimane ancora oggi una scelta migliore rispetto ai mezzi di sintesi interna?
Nella traumatologia, la gamba e il polso sono distretti dove la fissazione esterna risulta una tecnica semplice, sicura ed efficace rispetto alle sintesi cruente, ricordando che si tratta di trattamenti davvero mininvasivi sui tessuti ossei e non, già traumatizzati prima del nostro intervento.
Ci sono dei distretti anatomici in cui l’uso del fissatore esterno è più indicato, o più sicuro, rispetto ad altri?
Oltre a quelli sopra citati, ricordo come l’omero possa essere vantaggiosamente trattato in sicurezza con fissatori, specie monoassiali. La difficoltà, ad esempio nel distretto femore, non risiede nella sicurezza al momento dell’impianto, quanto nella tollerabilità durante il trattamento.
Cosa è cambiato negli ultimissimi anni dal punto di vista dei dispositivi e delle tecniche?
Oltre alle continue nuove proposte, ai miglioramenti e agli aggiornamenti dei tanti modelli di fissatori esterni proposti dal mercato, i fissatori circolari hanno mostrato recentemente un proliferare dei modelli esapodalici, sistemi affiancati da software che semplificano le correzioni, prima affidate alla sola intuizione ed esperienza dell’ortopedico, mostrando in termini numerici di facile applicazione pratica come raggiungere le correzioni necessarie su tutti i piani dello spazio.
La fissazione esterna è più o meno a rischio infezione rispetto a quella interna?
È indispensabile fare una distinzione tra infezioni minori e maggiori secondo la classificazione di Checketts.
Le prime sono frequenti nel corso del trattamento con la fissazione, ma risolvibili con medicazioni giornaliere più profonde sui tramiti delle fiches o dei fili transossei.
Le infezioni profonde, che interessano il tessuto osseo e costringono alla rimozione del fissatore, sono invece rare. In una revisione di 516 casi trattati nella Clinica ortopedica di Firenze e reparti del Cto, solo nove pazienti, l’1,74%, andò incontro a infezione profonda, mentre in quattro pazienti si verificò dopo la rimozione un’osteomielite puntiforme, risolta con curettage. Nella sintesi interna, le complicanze infettive profonde sono in realtà più frequenti, ma soprattutto più gravi e di più complessa risoluzione.
C’è una preparazione sufficiente dei chirurghi ortopedici su questa tecnica oppure si tratta di una procedura di nicchia?
Sicuramente dobbiamo fare di più. Anche alla luce delle recenti disposizioni ministeriali, la nostra società assume un ruolo guida in ambito ortopedico e traumatologico nella puntualizzazione della validità e correttezza di indicazioni, trattamenti e metodiche.
Devono essere ancora più di adesso le società superspecialistiche, con l’aiuto e la direzione della Siot, a gestire l’aggiornamento, e non le ditte produttrici. La Società italiana di fissazione esterna è impegnata da sempre, non solo per statuto, a svolgere ogni anno corsi teorici e pratici in tutta Italia, affidati alla presenza attiva dei delegati regionali nominati essenzialmente per questo motivo. Si occupano di questa basilare attività di diffusione delle nostre metodiche, patrimonio in gran parte italiano, ai giovani ortopedici che prenderanno il nostro posto nelle sale operatorie.
Renato Torlaschi
Giornalista Tabloid di ortopedia