
Michele D’Arienzo
SPECIALE CONGRESSO SIOT
Professor D’Arienzo, come orientarsi tra le numerose tipologie di fratture complesse? Esiste una classificazione riconosciuta e tale da costituire una guida univoca?
Non esiste una classificazione specifica delle fratture complesse ma, all’interno della classificazione AO che inquadra tutte le fratture, si prendono in considerazione anche tutte le fratture complesse.
Una guida utile è poi costituita da altre due classificazioni. Quella di Gustilo-Anderson inquadra le fratture esposte e le lesioni delle parti molli che vi si associano: suddivide le fratture esposte in tre gruppi principali e un’ulteriore suddivisione in sottogruppi per le ferite ampie.
C’è poi la classificazione di Tscherne relativamente alle condizioni cutanee.
Chi sono i pazienti tipici?
Perché si producano fratture complesse è necessario che si verifichi un trauma molto importante e quindi non sono eventi caratteristici dei soggetti anziani, che in genere si fratturano il collo del femore o il polso.
Il paziente tipico è quindi un soggetto relativamente giovane che ha subito un grosso incidente sul luogo di lavoro, come cadute da ponteggi, oppure incidenti stradali o conseguenza di traumi subiti durante la pratica di attività sportive pericolose, come paracadutismo o motociclismo.
Come si differenziano i trattamenti in base alla tipologia di frattura e di paziente?
I trattamenti si diversificano in base alla tipologia della frattura. In particolare, la classificazione AO non si limita a inquadrare questi traumi ma fornisce anche delle indicazioni chirurgiche e suggerisce al chirurgo cosa deve essere fatto a seconda della complessità, al numero di frammenti, alla rima di frattura, all’interessamento o meno di superfici articolari.
Anche le classificazioni di Gustilo e di Tscherne presuppongono un diverso tipo di trattamento. La frattura esposta va trattata in urgenza, entro le sei-otto ore; se la frattura non consente un trattamento interno va messo un fissatore esterno che la stabilizzi momentaneamente fino a quando, dopo che le condizioni cutanee saranno migliorate, si potrà procedere con il trattamento definitivo con un chiodo, placche, viti o ciò che risulta più opportuno.
Quali problematiche comporta, nel trattamento, un timing corretto?
Ancor più che per le altre fratture, prestare una grande attenzione al timing è importante per quelle complesse. Ovviamente, se si tratta di fratture esposte, prima si operano e meglio è, perché il paziente va stabilizzato.
Ma un soggetto che presenta una frattura complessa non è escluso che abbia anche altri problemi: se deve essere portato in un reparto di rianimazione o comunque deve essere spostato, è bene che sia stabilizzato il più presto possibile.
È poi chiaro che, per questi pazienti, in genere bisogna aspettare prima di intervenire: potrebbero esserci problemi di instabilità, problemi vascolari, anemie gravi o altro. Appena tutti i membri del trauma team danno il via libera, si opera.
Se siamo di fronte a una frattura esposta e dobbiamo aspettare oltre le sei-otto ore, occorre necessariamente bloccarla con un fissatore, anche per ridurre i rischi di una infezione. Al fissatore esterno si ricorre anche in quei casi in cui il paziente è finito per terra o comunque quando la ferita è sporca: anche operando subito, ricorrere a mezzi di sintesi interni può essere rischioso.
Quali sono le criticità maggiori che deve affrontare il chirurgo in questo ambito?
Le criticità sono proporzionali alla gravità della ferita ma anche alla gravità del trauma, che può configurarsi anche come politrauma; oltre alla frattura complessa dell’arto superiore ci può essere anche una frattura di bacino, un trauma toracico che ha determinato un pneumotorace con la conseguente difficoltà a respirare. Prima vanno stabilizzate le condizioni emodinamiche e ciò che è più urgente; solo dopo subentra l’arto superiore.
Ci sono novità nei trattamenti?
Dal punto di vista delle tecniche e delle soluzioni chirurgiche, da qualche anno non ci sono grosse novità. L’ultimo vero miglioramento lo ha fornito, ormai un po’ di tempo fa, l’utilizzo di placche con viti a stabilità angolare, che assicurano una maggiore stabilità e servono soprattutto in questo tipo di fratture. Un altro approccio sempre più seguito è quello mininvasivo che, quando possibile, ha fatto la sua comparsa anche nella traumatologia. In particolare ci sono le placche Liss (less invasive stabilization system), a scivolamento, che consentono di evitare grossi tagli, specie nelle fratture non esposte; hanno un profilo più basso, sono meno spesse, più resistenti e sono realizzate con materiali innovativi.
Negli ultimi tempi tali materiali vengono utilizzati per realizzare le barre dei fissatori esterni; molte ditte utilizzano il carbonio, che rende gli impianti più leggeri e più radiotrasparenti, per cui, quando si fanno gli esami radiografici di controllo, permettono una visione più chiara e una più facile interpretazione.
Siamo attrezzati a livello organizzativo per affrontare queste situazioni complesse?
Sì e se oggi riusciamo a ottenere risultati migliori rispetto al passato è principalmente grazie alla più moderna organizzazione, che sicuramente dà i suoi frutti, ancora più delle novità dovute alle tecniche, che si sono evolute ma non sono state rivoluzionate.
Oggi ogni Regione italiana ha, a seconda dell’estensione, uno o più trauma center. In Sicilia, per esempio, ne abbiamo tre: sono centri che si occupano esclusivamente di trauma e dove arrivano questi grossi traumatizzati, subito presi in carico da una équipe specialistica: chirurgo d’urgenza, ortopedico, rianimatore, neurochirurgo e anche un chirurgo plastico, che entra in scena in un secondo tempo, quando ci sono lesioni cutanee severe.
Sicuramente le fratture complesse devono essere affrontate da persone esperte, non sono lesioni che possono essere trattate da specializzandi o da traumatologi con limitata esperienza.
Renato Torlaschi
Giornalista Tabloid di Ortopedia
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