
Famosa illustrazione di un caricaturista inglese del 18° secolo (James Gillray, pubblicata nel 1799). L’immagine è stata recentemente pubblicata anche in copertina dell’ultimo numero della rivista Arthritis & Rheumatology (ottobre 2015)
Patologia in forte crescita. Una terapia corretta prevede la dieta come intervento non farmacologico, i corticosteroidi orali e la colchicina a basso dosaggio negli attacchi acuti e febuxostat o allopurinolo per il trattamento ipouricemizzante a lungo termine
A dispetto della sua storia plurimillenaria – nel corso della quale se ne rinvengono la prima descrizione clinica di cui si abbia notizia in un papiro egizio del 2600 a.C. e la prima formulazione della spiegazione fisiopatologica a metà del 1800 – la gotta rappresenta ancora, per certi versi, una sfida sanitaria aperta.
Non soltanto perché nella gestione clinica della malattia si impone via via la necessità di adattare criteri diagnostici e approccio terapeutico alla disponibilità rispettivamente di elementi classificativi (clinici e strumentali) più appropriati e di nuove risorse farmacologiche, ma anche perché da una ventina d’anni se ne sta rilevando un continuo aumento di incidenza nella popolazione generale, un aumento di prevalenza in fasce di popolazione già gravate da comorbidità e tassi di sottodiagnosi e di sottotrattamento che, per una condizione così da lungo tempo e così ben conosciuta, possono apparire paradossali.
E in considerazione dell’impatto sulla qualità di vita dei pazienti, della compromissione a lungo termine della funzionalità articolare e della frequente associazione con un aumentato rischio cardiovascolare e renale (che oggi si pensa essere non semplice comorbidità ma complicanza diretta della malattia), il ritardo nella diagnosi, il controllo subottimale dell’iperuricemia e lo scarso ricorso ad adeguate misure preventive che sono stati riscontrati nei più recenti studi di popolazione configurano una vera e propria emergenza.
Aumentano i casi, ma tarda il trattamento
Pur con consistenti variazioni su base geografica e nonostante la disomogeneità metodologica che rende gli studi epidemiologici condotti in diversi Paesi difficilmente comparabili, i dati di prevalenza e di incidenza rilevati nel corso degli ultimi decenni descrivono tutti concordemente un progressivo aumento dei casi di malattia, con particolare riferimento alle nazioni industrializzate (essendo però ancora scarse le informazioni riguardanti i Paesi in via di sviluppo).
A livello globale sono riportate percentuali di prevalenza comprese tra 0,1 e 10%, con i valori più alti nelle popolazioni adulte dell’America settentrionale (>3% negli Stati Uniti), dell’Europa occidentale (>3% in Gran Bretagna, Olanda, Spagna e quasi il 5% in Grecia) e dell’area oceanica (percentuali comparabili a quelle occidentali in Australia e Nuova Zelanda e percentuali decisamente più alte in alcune isole del Pacifico, Taiwan, Hong Kong, Singapore) (1).
Pochi i pazienti in terapia
Parallelamente, dagli studi che si sono occupati di delineare oltre all’andamento epidemiologico anche gli orientamenti dominanti nella gestione della malattia è emerso il secondo aspetto critico della situazione: complessivamente una quota sorprendentemente bassa dei pazienti è in trattamento con farmaci ipouricemizzanti. Sebbene sia ampiamente provato che tale approccio terapeutico è in grado di prevenire la neoformazione di cristalli di urato monosodico e di favorire la dissoluzione dei depositi sinoviali già costituiti, facendo della gotta l’unica forma di artrite cronica in una certa misura “curabile”.
Una recente revisione sistematica realizzata presso l’australiana James Cook University nel contesto della medicina generale (che ha incluso 9 studi retrospettivi condotti prevalentemente in Gran Bretagna e negli Stati Uniti, per un totale di quasi 260.000 pazienti) ha riscontrato tassi di trattamento profilattico inferiori al 50% e percentuali ancora più basse per quanto riguarda il monitoraggio uricemico, persino nei soggetti sottoposti a terapia (2).
In Europa, l’ultimo studio epidemiologico che ha preso in esame la popolazione britannica riporta in un periodo di quindici anni compreso tra il 1997 e il 2012 un aumento dei valori di prevalenza e di incidenza rispettivamente del 63,9% e del 29,6%, a fronte di tassi di trattamento con ipouricemizzanti pressoché invariati e, allo stato delle cose, decisamente inadeguati: al di sotto del 40% sul totale dei pazienti e ancora più bassi sui nuovi casi (<20% a 6 mesi dalla diagnosi e <30% a 12 mesi) (3).
In sintesi, pochi i pazienti trattati e oltretutto avviati al trattamento con notevole ritardo.
La mobilitazione italiana
Per quanto riguarda la diffusione della malattia, l’Italia si attesta su valori un po’ inferiori a quelli dei Paesi europei più colpiti, ma anche qui il trend di crescita si conferma: un’indagine condotta sul quinquennio 2005-2009 ha registrato nella popolazione generale adulta un incremento della prevalenza da 0,5% a 0,9%, che diventa nettamente superiore (circa 8%) se si considera la fascia di età over 65 (4).
In aggiunta, si stima vi siano circa 5 milioni di soggetti a rischio di svilupparne le manifestazioni cliniche sulla scorta di livelli uricemici prossimi al punto di saturazione dell’urato monosodico (6,8 mg/dL o 404 ?mol/L).
Il problema già da alcuni anni ha mobilitato l’impegno delle società scientifiche del settore.
Nel 2011 la Società italiana di reumatologia (Sir) ha avviato lo studio multicentrico King (Kick-off of the Italian Network for Gout) per valutare l’impatto delle condizioni cliniche legate alla malattia e di alcune variabili socio-demografiche sulla qualità di vita e sul livello di disabilità funzionale dei pazienti. I riscontri sul campione di 446 pazienti seguiti per 12 mesi hanno evidenziato la necessità di una più adeguata gestione della malattia, che contempli non solo la diagnosi precoce, il trattamento sintomatico appropriato e la prevenzione della cronicizzazione, ma anche l’integrazione di interventi mirati sulle condizioni patologiche associate e di misure educative (5).
A spiegare l’espansione quasi epidemica della gotta sono infatti principalmente fattori di natura socio-economica e socio-demografica: l’estensione degli stili di vita predisponenti (consumo di alimenti ad alto contenuto di purine, alcolici e bevande ricche di fruttosio) a fasce di popolazione via via più ampie e l’ampliamento della popolazione di età avanzata maggiormente esposta ai fattori di rischio iatrogeni (assunzione di diuretici) e clinici (insufficienza renale) e a comorbidità che ne complicano la gestione.
La stessa Sir, con l’obiettivo di rendere più efficaci i protocolli terapeutici nazionali, ha da poco portato a termine un lavoro multidisciplinare di aggiornamento e di adattamento al contesto italiano delle raccomandazioni Eular 2006, sintetizzandolo in un documento di consenso che contiene le 12 proposizioni originali rielaborate sulla base degli ultimi dati sul ruolo della dieta come intervento non farmacologico, sulla validità dei corticosteroidi orali e della colchicina a basso dosaggio nella gestione degli attacchi acuti e sull’efficacia e sicurezza del febuxostat, in alternativa all’allopurinolo, per il trattamento ipouricemizzante, e che si chiude con la formulazione di 8 quesiti di ricerca ancora aperti, da approfondire nel prossimo futuro (6).
Monica Oldani
Giornalista Tabloid di Ortopedia
Bibliografia
1. Kuo C-F, Grainge MJ, Zhang W, Doherty M. Global epidemiology of gout: prevalence, incidence and risk factors. Nature Rev Rheumatol 2015 Jul 7.
2. Jeyaruban A, Larkins S, Soden M. Management of gout in general practice-a systematic review. Clin Rheumatol 2015;34(1):9-16.
3. Kuo CF, Grainge MJ, Mallen C, Zhang W, Doherty M. Rising burden of gout in the UK but continuing suboptimal management: a nationwide population study. Ann Rheum Dis. 2015;74(4):661-7.
4. Trifirò G, Morabito P, Cavagna L, Ferrajolo C, Pecchioli S, Simonetti M, Bianchini E, Medea G, Cricelli C, Caputi AP, Mazzaglia G. Epidemiology of gout and hyperuricaemia in Italy during the years 2005–2009: a nationwide population-based study. Ann Rheum Dis 2013;72:694–700.
5. Scire CA, Manara M, Cimmino MA, Govoni M, Salaffi F, Punzi L, Monti MC, Carrara G, Montecucco C, Matucci-Cerinic M, Minisola G for KING Study Collaborators. Gout impacts on function and health-related quality of life beyond associated risk factors and medical conditions: results from the KING observational study of the Italian Society for Rheumatology (SIR). Arthritis Res Ther 2013;15(5):R101.
6. Manara M., Bortoluzzi A, Favero M, Prevete I, Scirè CA, Bianchi G, Borghi C, Cimmino MA, D’Avola GM, Desideri G, Di Giacinto G, Govoni M, Grassi W, Lombardi A, Marangella M, Matucci CerinicM, Medea G, Ramonda R, Spadaro A, Punzi L, Minisola G. Raccomandazioni della Società Italiana di Reumatologia sulla gestione della gotta. Reumatismo 2013; 65(1):5-24.
LA NUOVA CLASSIFICAZIONE ACR/EULAR
Tra i motivi che rendono gli studi epidemiologici e clinici sulla gotta di difficile confronto vi è spesso il ricorso a set di criteri diagnostici e di indicazioni differenti. Nella lunga storia della gotta sono state prodotte svariate linee guida e classificazioni cliniche basate su dati obiettivi, di laboratorio e strumentali, che sono state adottate in periodi, in Paesi e in contesti sanitari diversi.
Da un lato l’esigenza di ovviare a tale disomogeneità metodologica e dall’altro la necessità di aggiornare in modo uniforme le procedure diagnostiche sulla base delle conoscenze più recenti, hanno spinto le due maggiori istituzioni scientifiche del settore, l’American College of Rheumatology (Acr) e la European League Against Rheumatism (Eular) a produrre, attraverso il lavoro di un panel internazionale di venti esperti, una classificazione condivisa.
L’obiettivo generale di Acr ed Eular è stato quello di formulare criteri clinici dotati di maggiore sensibilità e specificità di quelli finora utilizzati e di includere nuovi parametri, sia clinici (relativi all’evoluzione della sintomatologia articolare), sia di laboratorio (relativi al monitoraggio dell’acido urico sierico e sinoviale), sia strumentali (relativi ai reperti ecografici, radiografici e tomografici attualmente noti). Nella classificazione Acr/Eular 2015 sensibilità e specificità dei criteri sono mediamente alte, rispettivamente 92% e 89%.