
Vincenzo Salini
Dalla rete formativa italiana alle esperienze all’estero, dai cadaver lab ai simulatori in realtà virtuale: l’Accademia universitaria di ortopedia e traumatologia, insieme agli specializzandi, fa il punto su pregi e difetti dell’attuale percorso formativo
I prossimi 25 e 26 novembre, al Centro Congressi San Raffaele di Milano si terrà la tredicesima edizione del Congresso dell’Accademia universitaria di ortopedia e traumatologia (Auot). “How to learn surgery” è il titolo della prima sessione: curata dall’Accademia insieme con l’Associazione italiana specializzandi in ortopedia e traumatologia (Aisot) metterà a confronto le modalità con cui si apprende la chirurgia ortopedica in Italia e all’estero.
Al presidente del congresso Auot Vincenzo Salini, direttore dell’unità di Ortopedia e traumatologia all’Irccs Ospedale San Raffaele di Milano e docente ordinario all’Università Vita-Salute San Raffaele, abbiamo chiesto le ragioni di questa scelta.
Professor Salini, com’è nata l’idea di “How to learn surgery”?
Spesso vediamo che i nostri specializzandi, quando tornano dall’estero, sono entusiasti della loro esperienza. Ascoltandoli, si capisce che una tra le principali ragioni del loro entusiasmo deriva dal fatto di aver potuto effettuare molta più attività chirurgica rispetto a quanto accade in Italia. In Paesi come Stati Uniti o Germania, le scuole di specialità sono molto più orientate alla pratica rispetto al nostro sistema formativo.
Partendo da questo spunto, un po’ provocatoriamente, ho voluto riunire tutti noi direttori di scuola, i rappresentanti dell’Aisot e alcuni colleghi stranieri – tedeschi, svizzeri, spagnoli, inglesi e statunitensi – per cercare di capire le differenze e i punti di contatto tra i diversi sistemi di insegnamento della chirurgia. E soprattutto per dare la possibilità ai nostri specializzandi, attraverso il presidente dell’Aisot, di esprimere le proprie esigenze educative.
Quali sono le differenze principali nella formazione specialistica, all’interno del nostro Paese e rispetto all’estero?
In Italia non c’è ancora una omogeneità di risultati, e neppure un’omogeneità di vedute. Ci sono alcune scuole che hanno una rete formativa molto attraente e molto utile per i ragazzi, che hanno la possibilità di mettersi in gioco e partecipare, ma in altre purtroppo gli specializzandi rimangono sempre in sede oppure vanno in strutture dove non hanno la possibilità di fare quello che dovrebbero secondo le norme ministeriali.
In altri Paesi, come la Germania, gli specializzandi fanno i primi tre anni di chirurgia generale, frequentando i reparti: questa esperienza da noi non esiste; c’è sì un tronco comune, ma è più teorico che pratico.
Come mai non si riesce ad andare in quella direzione?
In alcune situazioni ci sono delle oggettive difficoltà, in altre manca un accordo. Negli ultimi tempi le cose stanno molto migliorando ma, tradizionalmente, tra ospedali e università in molte sedi non si è avuta quella fusione di intenti per la formazione medica stabilita dalla legge 517 del 1999 che istituiva le aziende ospedaliero-universitarie e disciplinava i rapporti fra servizio sanitario nazionale e università.
Ci può dire qualcosa di più su questo rapporto?
È sempre stato un po’ controverso, non lineare. Per fortuna, grazie a presidenze illuminate dell’Otodi (Ortopedici e traumatologi ospedalieri d’Italia), della Siot (Società italiana di ortopedia e traumatologia) e dell’Accademia, le cose sono un po’ migliorate e si è cercato di andare verso una maggiore omogeneizzazione.
Dal punto di vista clinico, l’Italia dispone di grandi ospedali che svolgono un’attività egregia. Gli Irccs offrono un ulteriore plus nel momento in cui un giovane vuole occuparsi attivamente di ricerca. Quello che manca è un’uniformità di comportamento. Nella mia scuola, io tengo gli specializzandi con me per i primi tre anni, ma successivamente gli faccio fare esperienza nella rete formativa, prima di tutto in Italia e poi, se lo desiderano, possono frequentare un periodo di 6, 12 o anche 18 mesi in un ospedale all’estero. Onestamente, non tutte le scuole sono organizzate allo stesso modo, molto frequentemente per carenza di fondi.
La chirurgia ortopedica italiana è di ottimo livello, ci sono altissimi profili sia nel mondo accademico che negli ospedali, pubblici e accreditati. Io credo che tutte queste strutture andrebbero coinvolte totalmente nella rete formativa, sfruttando a livello educativo alcune risorse che operano al di fuori delle università e che oggi fanno esclusivamente attività clinica.
Una complicazione deriva dal fatto che, con il sistema attuale dei concorsi, alcuni giovani finiscono in una scuola di specialità che non amano particolarmente, tanto che, dopo il primo anno, alcuni rinunciano alla borsa. In passato, lo studente faceva la tesi in ortopedia ed entrava nella specialità sostenendo solo l’esame per ortopedia, perché era quello che desiderava fare; oggi molti ragazzi arrivano senza una vera vocazione e quindi vanno motivati e riorientati, ma non sempre ci si riesce.
Per tutte queste ragioni, il nostro congresso sarà rivolto specialmente ai giovani. Mi hanno fatto notare che il titolo della prima sessione è “How to learn surgery” e non “How to teach surgery”: è proprio perché mi interessa considerare il problema dalla parte dei ragazzi.
Un elemento importante per la formazione è costituito dai cadaver lab. Com’è la situazione oggi?
In Italia sono ormai molti, e ce ne sono sempre di più, eppure non abbastanza per riuscire a soddisfare tutte le richieste e le necessità degli specializzandi, anche perché sono utilizzati per tutte le specialità e non solo per ortopedia.
È sicuramente auspicabile un ulteriore aumento di queste strutture, anche se poi non è neppure semplice organizzarsi, dato che una seduta di cadaver lab ha un costo elevato, che non sempre le scuole di specializzazione riescono a sostenere.
Anche a causa di queste difficoltà, negli ultimi tempi si stanno affermando simulatori di chirurgia e sistemi che sfruttano la realtà virtuale a supporto della formazione.
Tuttavia l’apprendimento attraverso il cadaver lab rappresenta, a mio avviso, la via da perseguire, sperando che l’aiuto economico delle società scientifiche cresca con il passare del tempo.
Qual è dunque il ruolo della tecnologia nell’insegnamento?
Per facilitare l’apprendimento della chirurgia, la tecnologia ha un ruolo crescente. Di recente, è stata fatta la prima protesi con l’aiuto della realtà aumentata, che è dunque utile sia dal punto di vista didattico che clinico.
Vengono continuamente proposte nuove apparecchiature che ci consentiranno in futuro di operare in modo sempre più tecnologico. Ormai tutte le aziende hanno robot per la chirurgia protesica, è stato reso disponibile il robot per la chirurgia spinale, ed è stato annunciato il robot per la chirurgia traumatologica.
Fino a pochissimi anni fa, la robotica aveva un utilizzo limitato, anche perché richiedeva una serie di requisiti per essere praticata, per esempio quello di sottoporre il paziente a una serie di esami di imaging, mentre oggi esistono robot che non utilizzano le immagini radiografiche precedenti la chirurgia ma lavorano direttamente sul campo operatorio. Su questo tema, al congresso Auot ci sarà una relazione di Fabio Catani che spiegherà in che modo il robot può aiutare ad apprendere la chirurgia.
L’utilizzo delle nuove tecnologie richiede una formazione anche per i chirurghi di vecchia data. Chi se ne occupa?
La robotica utilizzata nella chirurgia protesica presuppone che si debba fare una sorta di patentino. Le aziende produttrici convocano il chirurgo a un cadaver lab, durante il qual vengono insegnate le procedure base e come effettuare l’intervento con l’ausilio del robot.
Oggi esistono tre patentini, uno per la protesi monocompartimentale di ginocchio, uno per la totale di ginocchio e uno per la protesi d’anca. Per altri tipi di robot, che comportano un differente approccio al paziente, la patente non è necessaria, ma comunque questa parte di educazione continua è soprattutto a carico delle aziende.
Renato Torlaschi
Giornalista Tabloid di Ortopedia
I WEBINAR AUOT, TUTTI I MERCOLEDÌ IN PRIMA SERATA_L’aggiornamento dei chirurghi è sempre più indispensabile, oltre che obbligatorio. «Anche a livello assicurativo, se non si fa aggiornamento continuo e non si accumulano ogni anno i crediti Ecm richiesti, le polizze non coprono più i chirurghi» ricorda Vincenzo Salini, direttore dell’unità di Ortopedia e traumatologia all’Irccs Ospedale San Raffaele di Milano e docente ordinario all’Università Vita-Salute San Raffaele.
Così anche l’Accademia universitaria di ortopedia e traumatologia (Auot), sotto la presidenza del professor Alfredo Schiavone Panni, non potendosi riunire per il congresso annuale durante il periodo della pandemia, ha iniziato a realizzare una serie di webinar riconosciuti con crediti Ecm. «Ogni scuola di specialità ha proposto un argomento per webinar, che si svolgono tutte le settimane il mercoledì sera alle 19, e a cui possono partecipare gli strutturati, i direttori e gli specializzandi: è anche questo un modo per uniformare l’educazione di tutti gli studenti sul territorio nazionale» ci ha detto Salini.
L’elenco completo dei webinar passati e futuri è alla pagina web www.auot.it/webinar-2022. È possibile per tutti rivedere, su YouTube, le registrazioni dei webinar.