
Francesco Sadile
«L’osteonecrosi è una malattia subdola, definita in modo spesso non corretto, diagnosticata male e tardi e trattata anche peggio» afferma Francesco Sadile, che studia la patologia da trent’anni e sta per pubblicare una meta-analisi
L’osteonecrosi, la sua diagnosi e il suo trattamento, sono stati nel 2013 l’argomento portante di un’edizione del congresso della Società di ortopedia e traumatologia dell’Italia meridionale ed insulare (Sotimi). A Napoli, nel maggio 2013, a presiedere i lavori scientifici c’era il professor Francesco Sadile, direttore dell’Unità operativa complessa e della Scuola di specializzazione di ortopedia e traumatologia presso l’Azienda Ospedaliera Universitaria “Federico II” di Napoli.
Proprio dalle pagine di Tabloid di Ortopedia, Sadile aveva denunciato come le prove scientifiche su questa patologia non fossero conclusive e come non si fosse ancora giunti a un concetto univoco di necrosi ossea. Quell’edizione del congresso Sotimi discusse proprio di come riscrivere in maniera più oggettiva il percorso di diagnosi e terapia dell’osteonecrosi e, a due anni da quelle sessioni scientifiche, abbiamo fatto nuovamente il punto con l’esperto.
Professor Sadile, negli ultimi due anni ci sono stati dei progressi nella diagnosi e nella terapia dell’osteonecrosi?
Sul piano scientifico mondiale si registrano solo due nuovi lavori degni di essere citati.
Il primo, di Li et al. (2014), è una meta-analisi della letteratura che evidenzia una maggiore efficacia del forage (o core decompression) se combinato con l’impiego di cellule staminali. Il secondo lavoro è di Zhao et al. (2015) ed esplora più da vicino i meccanismi patogenetici dell’osteonecrosi della testa del femore. Entrambe queste ricerche sono state incluse in un nostro lavoro meta-analitico in corso di accettazione su una primaria rivista internazionale, ad alto impact factor, che indaga il reale valore oggettivo del forage nel trattamento dell’osteonecrosi della testa del femore.
Sul piano più soggettivo, l’osteonecrosi rimane pervasa da un certo non so che di misterioso, che lascia forse troppo spazio all’interpretazione personale e soggettiva. Va ribadito pertanto un approccio multicentrico al problema sulle basi di una più chiara condivisione di ogni aspetto della patologia, dalla sua definizione ai criteri di diagnosi clinica e radiologica e ai trattamenti chirurgici e non.
L’impressione di due anni fa, che si conferma attualmente, è che questa patologia non susciti molto interesse. L’appeal tecnologico e l’interesse anche dell’industria sembrano sempre essere molto tiepidi e credo sia dovuto alle scarse prospettive che sul piano industriale suscitano i risultati globali della ricerca, soprattutto per quel che riguarda il campo della rigenerazione del tessuto osseo e degli scarsi risultati che si ottengono con l’uso delle cellule staminali.
Qual è il valore clinico del forage?
Già nell’articolo di presentazione del congresso Sotimi del 2013 accennavo ai dubbi amletici del forage. Ebbene, dopo un’esperienza consecutiva, in blind e prospettica di oltre il minimo statisticamente significativo, e dopo la stesura di una meta-analisi, sono in grado di dire che il forage è utile al massimo in un terzo di casi di osteonecrosi. In altre parole, esso funziona soltanto nei casi che noi abbiamo provvisoriamente classificato come “short story” e cioè in meno del 38-40% dei pazienti.
Per “short story case” intendiamo quei casi di osteonecrosi che esordiscono, a livello dell’anca, con un dolore articolare molto intenso, ravvicinato nel tempo e resistente a ogni tipo di trattamento medico conservativo, senza alcun rapporto con un trauma reale e obiettivo. Sono muti sul piano radiografico e non sempre dirimenti mediante risonanza magnetica.
La “long story case” invece è quella condizione di dolore continuo, sordo, fuorviante, stancante per il medico e per il paziente, non chiaro su nessun piano, compreso quello angiografico e in risonanza magnetica. Esso si manifesta nella sua interezza con molto ritardo, dopo più di 3-6 mesi, e conduce a sfasci articolari notevoli. In questi casi, nessun trattamento funziona. Le onde d’urto, i campi elettromagnetici pulsati, i trattamenti farmacologici con bisfosfonati e i forage hanno, nel migliore dei casi, solo effetti placebo. Un valore a parte lo avrebbero i trapianti vascolarizzati. In realtà, indirettamente, si assiste spesso a collassi articolari tali da condurre velocemente alla protesi totale di anca.
Che prove avete trovato nella vostra meta-analisi?
Ci siamo imbattuti in un dato intrigante che ci ha fatto pensare molto. Se consideriamo il destino di una sindrome necrotica della testa del femore in generale, sotto forma di una torta statistica, rispetto ovviamente a dati pubblicati e ufficiali, si è molto vicini alla realtà se calcoliamo che un 25-30% va incontro a protesi totale di anca e un altro 25-30% a forage ad esito positivo o guarigione completa e stabile nel tempo; la quota restante (40-50%) è verosimile che sia divisa – ma nessun lavoro di qualità in letteratura lo certifica – tra guarigioni spontanee e/o passate inosservate/malinterpretate, guarigioni dopo terapie varie sia chirurgiche sia conservative come le onde d’urto, i campi elettromagnetici pulsati e altro, sommate a una quota di outcome di difficile interpretazione e classificazione.
Queste percentuali sono importanti, a nostro avviso, per il calcolo presente e futuro della cost effectiveness e della cost benefit analysis in caso di valutazione di nuove proposte apparentemente ininfluenti e di nuovi trattamenti da sottoporre ai criteri della evidence based medicine.
Un altro risultato importante della nostra ricerca sarebbe l’inutilità della diagnosi istologica nei casi di osteonecrosi. Questa avrebbe soltanto un valore medico legale e neanche inoppugnabile giacché il concetto di necrosi ossea non è univoco. In altre parole l’osteonecrosi non ha quei caratteri istologici precipui come può invece averli, come linea cellulare impazzita per esempio, un tumore osseo.
È possibile fare una stima del costo economico dell’osteonecrosi?
Nel mondo si impiantano più di 1 milione di protesi d’anca all’anno, di cui un quarto secondarie a osteonecrosi. A un costo medio di 2.000,00 dollari, la spesa totale è di 500 milioni di dollari. A ciò bisogna aggiungere tutti i costi dell’ospedalizzazione e trattamento chirurgico, della riabilitazione, quelli sociali e lavorativi per un totale ipotetico almeno di 1,5 miliardi di dollari per anno.
Se solo si riuscisse a salvare un 10-20% di affetti da osteonecrosi della testa del femore da un destino artrosico, dipendente da inadeguata e intempestiva diagnosi e/o da inappropriato trattamento, si avrebbe un alleggerimento dei costi di budget sanitario di tutto rispetto. Senza contare la diminuzione del tasso di riprotesizzazioni.

Gli studenti della Scuola di specializzazione di ortopedia e traumatologia
dell’Università “Federico II” di Napoli
Dove dovrebbe orientarsi la ricerca?
La ricerca dovrebbe orientarsi non tanto nella scelta delle opzioni terapeutiche in caso di osteonecrosi della testa del femore. Credo che il puzzle si risolva prima definendo bene in modo condiviso cosa si deve intendere per osteonecrosi. Poi come si deve fare diagnosi di osteonecrosi. È un fatto clinico o strumentale? Credo che la clinica sia sempre regina in medicina. Bisogna cogliere tutti i segni e i sintomi che vediamo prima di abbozzare un iter diagnostico strumentale.
A questo proposito, direi che la tecnologia diagnostica più performante e precoce della risonanza magnetica, che a mio parere arriva quando ormai è già troppo tardi, deve essere ancora inventata. Dovrebbe essere una tecnologia in grado di investigare sia gli stadi di semplice ischemia sia di infarto vero e proprio.
Riguardo alle cellule staminali, mi sono sempre chiesto, se c’è necrosi vera, ovvero spopolamento cellulare e “dead trabeculae”, che senso ha impiantare nuove cellule vitali se il letto vascolare è assente. Ecco la ragione per la quale le cellule staminali non riescono ad attrarmi abbastanza. Troppo casuale il loro impianto e troppo aleatorio il loro effetto. Tutto rimane troppo nell’ambito del caso. Non proponibile. Non occorre, a nostro avviso, una ricerca isolata solo sulle staminali in sé, ma una ricerca coordinata tra ortopedici e ricercatori puri.
Andrea Peren
Giornalista Tabloid di Ortopedia
SPECULAZIONE SCIENTIFICA E UNA NUOVA TEORIA:
«PSEUDOARTROSI POTREBBE ESSERE OSTEONECROSI»
«Dopo circa trent’anni anni di studio sull’osteonecrosi, quel che più mi affascina è l’aspetto ontologico e terminologico – dice il professor Francesco Sadile –. Il concetto di morte insito negli effetti di questa malattia e nella sinonimia tra “infarto” e “necrosi” creano una condizione forse di repulsione verso questa malattia ortopedica. Forse tutto il capitolo poggia su un bias di fondo che impedisce la comprensione intima del fenomeno necrosi-rivascolarizzazione».
Secondo il chirurgo, che con tutto il suo gruppo di lavoro all’Università di Napoli studia da anni l’osteonecrosi, «studiare un problema a 360° significa andare al di là delle cose comuni e note». Parte da qui un’ipotesi nuova sull’osteonecrosi. «L’esperienza di chirurgo ortopediatra e poi di chirurgo ortopedico e traumatologo di ogni età, un lavoro matto e disperatissimo, mi ha permesso di trovare link impensabili tra l’osteonecrosi e molte malattie ortopediche. Un esempio per tutti: la pseudartrosi. Essa è considerata in un capitolo a parte dell’ortopedia e, anche se ritenuta comunque secondaria a una scarsa vascolarizzazione distrettuale, mai ne è stata considerata o solo ipotizzata la sua origine osteonecrotica. Questo semplicemente perché in genere la pseudartrosi colpisce l’osso compatto haversiano molto vascolarizzato e spesso viene correlata anche a condizioni biomeccaniche sfavorevoli, a mio modo di vedere, molto fuorvianti. La soluzione di questo puzzle potrebbe risiedere nel considerarla una vera osteonecrosi distrettuale – azzarda Sadile –. Una mancata consolidazione ossea allora non sarebbe più da classificare come una neoarticolazione da mancata fusione interframmentaria ma una osteonecrosi interframmentaria con secondaria neoarticolazione».
Per ora si tratta di intuizioni: «al momento ho solo prove indirette – dice Sadile –. Purtroppo la ricerca sperimentale, in Italia, è una chimera. Solo il ragionamento e il metodo deduttivo cartesiano possono salvarci. Tutto è nato da una banale domanda. Ciò che noi vediamo radiograficamente è l’effetto o la causa di quello che noi conosciamo sotto il nome di osteonecrosi? Non posso ancora dirlo con sicurezza ma credo di essere sulla strada giusta per risolvere quella malattia che anche gli americani chiamano puzzling (rompicapo)». Ma qual è la spiegazione? «Il rischio – avverte Sadile – è quello di sfiorare in apparenza la banalità. La natura è molto più semplice di noi umani. Siamo cervellotici, vogliamo complicare le cose semplici per un bisogno atavico di protezione personalistica che in un mondo globale e più solidale non ha più ragione di essere. Una necrosi – spiega Sadile – è l’effetto di un’asfissia permanente e nessun “cadavere” può esistere in un essere o corpo vivente. Chiunque è in grado di trarre le ovvie conclusioni. Basta dedurre. Non è più complicato di così».