
David Feldman
Gli interventi di fusione vertebrale nelle scoliosi non idiopatiche sono seguiti da complicanze post-chirurgiche molto più spesso di quanto avviene per le scoliosi idiopatiche. Dal 24 al 75% dei pazienti, a seconda della condizione patologica di base e delle eventuali comorbidità, presentano esiti della ferita chirurgica, per lo più di natura infettiva, che richiedono successivi provvedimenti riparativi (irrigazione, debridement, rimozione degli impianti, risuturazioni complesse, spesso con necessità di flap muscolari).
Ciononostante, mentre è stato ampiamente indagato il ruolo predisponente di fattori di rischio legati alle singole patologie primarie, poca attenzione è stata dedicata alle variabili del contesto operatorio, con l’eccezione di aspetti generici quali la durata della procedura o il numero di trasfusioni effettuate. In particolare, nessuno studio aveva finora preso in esame il peso rivestito dalle diverse modalità di chiusura della ferita chirurgica.
A domandarsi se la tecnica di sutura utilizzata negli interventi di fusione vertebrale posteriore possa fare la differenza ai fini del decorso post-operatorio sono stati per primi, al Langone Medical Center di New York, David Feldman e la sua équipe del Dipartimento di chirurgia ortopedica in collaborazione con Michael Margiotta del Dipartimento di chirurgia plastica e ricostruttiva.
Il quesito è stato da essi affrontato con un’analisi retrospettiva delle cartelle cliniche di tutti i pazienti sottoposti a quel tipo di intervento e suturati in un primo gruppo (fino al 2007) con una procedura convenzionale (chiusura delle fasce e sutura sottocutanea e cutanea) non standardizzata ad opera di due chirurghi ortopedici e in un secondo gruppo (a partire dal 2009) con una tecnica multistrato attuata dal chirurgo plastico. Sul totale di 76 pazienti inclusi nello studio – omogenei per età, numero di corpi vertebrali inclusi nell’artrodesi, durata dell’intervento, entità delle perdite ematiche, numero di trasfusioni richieste – 42 rientravano nella procedura convenzionale e 34 in quella innovativa.
Pur con i limiti connaturati nel disegno retrospettivo, l’indagine di Feldman e collaboratori sembra far emergere l’importanza tutt’altro che trascurabile che la tecnica di sutura può assumere nel determinare il successo degli interventi di fusione vertebrale posteriore: nel campione da essi vagliato complicanze infettive acute (entro 6 mesi) nella guarigione della ferita chirurgica sono state rilevate, con una incidenza del 19%, esclusivamente nel gruppo di pazienti trattati in modo convenzionale e in quasi il 12% di questi soggetti hanno avuto un’evoluzione tale da richiedere procedure chirurgiche riparative (irrigazioni, debridement) nei primi 20 giorni successivi agli interventi iniziali.
L’attuazione di una sutura multistrato, al livello della muscolatura paravertebrale in profondità e al livello delle fasce più in superficie, in modo da creare due compartimenti separati (con drenaggi tipo Jackson-Pratt indipendenti) e una barriera impermeabile a protezione del piano osseo e degli impianti, potrebbe essere una componente della procedura operatoria decisiva nel ridurre il rischio di eventi ischemici a carico dei tessuti muscolari profondi e di complicanze infettive in corrispondenza del sito chirurgico.
Monica Oldani
Giornalista Tabloid di Ortopedia