
Andrea Giustina
Ipovitaminosi D: una definizione al centro di una dibattuta controversia scientifica. Qual è il marcatore biologico o biochimico che può meglio identificare un paziente ad alto rischio di ipovitaminosi? Quali sono i valori di cut-off che definiscono un reale deficit di vitamina D? A queste domande, che sono cruciali per specialisti e pazienti, viene data una risposta nel documento pubblicato sulla rivista British Journal of Clinical Pharmacology (1), frutto del summit che lo scorso anno ha riunito oltre 25 esperti provenienti da tutto il mondo in una tre giorni scientifica dedicata all’ormone del sole, la vitamina D.
«Nonostante tutte le controversie che ruotano intorno alla vitamina D, il suo ruolo essenziale nella salute dell’osso è noto da oltre un secolo e generalmente, quanto si riscontra uno stato di ipovitaminosi D, si interviene somministrando il colecalciferolo o altri precursori della vitamina D – spiega il professor Andrea Giustina, ordinario di Endocrinologia al San Raffaele di Milano e presidente del Gruppo di studio sull’osteoporosi da glucocorticoidi e sull’endocrinologia dello scheletro (Gioseg) –. Trattandosi di un ormone, e non di una vitamina come erroneamente si crede, è fondamentale quindi accertarne il deficit, definire la gravità della carenza nel singolo individuo: questo ci permette di intervenire in forma personalizzata» sottolinea Giustina.
Ad oggi, il dosaggio sierico del metabolita circolante, la 25 idrossi-vitamina D, è considerato il gold standard per valutare lo stato vitaminico D e, nonostante vi siano diverse definizioni di ipovitaminosi proposte da diverse società scientifiche e istituzioni nazionali e internazionali, la sua concentrazione nel sangue è considerata dall’esperto il miglior biomarker. Il consenso raggiunto dagli esperti riunitisi a Pisa è che valori di 25 idrossi-vitamina D inferiori a 12 ng/ml riflettono una condizione sfavorevole per la salute ossea, un ridotto assorbimento del calcio, una scarsa mineralizzazione ossea e vengono associati a un aumentato rischio di rachitismo e/o di osteomalacia; solo però quelli superiori a 20 ng/mL (e fino a 50 ng/mL) sono considerati sicuri e sufficienti per la salute dell’osso.
«Questo consenso è a suo modo storico in quanto per la prima volta sono state individuate soglie ideali e condivise dai più grandi esperti espressi dalla comunità scientifica per definire una condizione carenziale o di insufficienza di vitamina D. Questo non vuol dire che tutti i problemi in questo ambito siano risolti: infatti, se da un lato non abbiamo ancora raggiunto una standardizzazione a livello mondiale delle tecniche di misurazione, dall’altro, dagli studi clinici ci arrivano talvolta risultati contraddittori spesso legati proprio alle soglie di intervento – continua Giustina –. Questi due aspetti sono due facce della stessa medaglia. Infatti gli effetti della somministrazione di vitamina D variano molto a seconda della condizione più o meno carenziale di partenza. La supplementazione su soggetti carenti mostra, infatti, effetti significativi, mentre su soggetti mediamente non carenti, non ci si possono attendere risultati altrettanto validi» conclude Giustina.

Roberto Cesareo
Il consenso di Ame
Qualche mese dopo è stata pubblicata su Nutrients (2) la consensus dell’Associazione medici endocrinologi (Ame), che arriva a conclusioni simili: «L’eventuale carenza di Vitamina D – spiegano gli esperti – viene valutata attraverso un dosaggio nel sangue, che viene così interpretato, con qualche variazione secondo i diversi laboratori e soprattutto secondo i dettami delle differenti società mediche: carenza <10 ng/mL; insufficienza: 10-30 ng/mL; sufficienza: 30-100 ng/mL; tossicità: >100 ng/mL». «I valori di Vitamina D attualmente adottati – spiega Roberto Cesareo, endocrinologo dell’Ospedale Santa Maria Goretti di Latina e primo firmatario del lavoro – prevedono quindi che i soggetti con un valore inferiore a 30 ng/mL possano essere dichiarati affetti da insufficienza di Vitamina D. A nostro avviso, tale limite andrebbe rivalutato in quanto troppo alto, soprattutto in assenza di forti evidenze scientifiche. L’adozione di tali livelli costituisce uno dei motivi per cui si finisce per dichiarare “carenti di Vitamina D” tanti soggetti che poi probabilmente non lo sono. Nella consensus abbiamo ritenuto più opportuno definire ridotti i valori di Vitamina D quando essi sono chiaramente al di sotto di 20 ng/mL. Sembra apparentemente una banalità tale differenza, ma una buona parte dei soggetti dichiarati “carenti di Vitamina D” cadono proprio in questa forbice che va tra i 20 e i 30 ng/mL comportando così, come poi effettivamente si sta verificando, una incongrua prescrizione di tale molecola. Al contrario soggetti osteoporotici o pazienti che assumono già farmaci per la cura dell’osteoporosi o altre categorie di soggetti significativamente più a rischio di carenza di vitamina D è corretto, a nostro giudizio, che abbiano valori di Vitamina D superiore al limite di 30 ng/mL e quindi vanno trattati».

Fabio Vescini
Paziente anziano e ipovitaminosi D
Fabio Vescini, endocrinologo di Ame che lavora presso l’azienda ospedaliero universitaria Santa Maria della Misericordia di Udine ricorda infine che la prevenzione dell’ipovitaminosi D passa attraverso uno stile di vita corretto, cioè un’adeguata esposizione alla luce del sole e una dieta bilanciata. «Va sottolineato però – dice l’esperto – che con l’invecchiamento l’efficienza dei meccanismi biosintetici cutanei tende a ridursi e perciò è più difficile per le persone anziane produrre adeguate quantità di vitamina D con l’esposizione alla luce solare. Quindi, nei pazienti con osteomalacia o osteoporosi, negli anziani soprattutto quelli più esposti alle cadute, nei soggetti che per forza di cose non possono esporsi in maniera adeguata alla luce solare, il trattamento con l’integrazione di vitamina D va considerato».
Soprattuto in considerazione del fatto che la luce solare anche nel nostro paese per lunghi periodi dell’anno (autunno-inverno) non contiene una radiazione Uvb sufficiente a far produrre vitamina D nella cute. «Paradossalmente ciò si può verificare anche in estate – continua Vescini –, in quanto l’opportuna applicazione di creme con filtri solari riduce la penetrazione dei raggi solari nella cute e, conseguentemente, la biosintesi di vitamina D. In letteratura è riportata una variabilità stagionale nei valori plasmatici di vitamina D. Essi infatti tendono ad essere massimi in autunno e raggiungono un nadir nella primavera inoltrata. Non esiste una raccomandazione circa il periodo migliore nel quale eseguire il dosaggio della vitamina D plasmatica. Certamente un valore basso, rilevato in autunno, è segno che le scorte di vitamina D non sono state colmate nell’estate appena trascorsa ed è logico attendersi che in primavera questo paziente abbia una severa ipovitaminosi D».
LE MOLECOLE: COLECALCIFEROLO O CALCIFEDIOLO?_«È necessario sapere che le molecole di vitamina D non sono tutte uguali – puntualizza l’endocrinologo dell’Ame Roberto Cesareo –. La forma inattiva, quella di più comune utilizzo, è il colecalciferolo. Tale molecola, prescritta solitamente sotto forma di gocce o flaconcini da assumere o giornalmente o in assunzione mono-settimanale o a più lunga scadenza (mensile o anche bimensile), viene successivamente attivata in sede prima epatica e poi renale e, come tale, espleta i suoi effetti finalizzati in particolare a un corretto assorbimento di calcio a livello intestinale e a un controllo del metabolismo fosfo-calcico in sede ossea. Ma esistono altre molecole che sono già parzialmente o del tutto attive. Tra esse merita attenzione il calcifediolo, che non necessità di essere attivato al livello del fegato e per le sue caratteristiche molecolari è, come si dice in gergo, meno “liposolubile”, cioè permane meno nel tessuto adiposo rispetto alla precedente molecola menzionata, il colecalciferolo. Entrambe queste molecole non danno, se prescritte appropriatamente e a dosi corrette, problemi, in particolare alterazione dei livelli del calcio nel sangue e/o nelle urine – sottolinea l’esperto –. Il calcifediolo per la sua cinetica di azione e per la sua conformazione può trovare motivo di maggior utilizzo, per quanto detto, nei pazienti che hanno patologie epatiche di un certo rilievo e anche nei soggetti obesi e carenti di vitamina D o in coloro che sono affetti da problemi di malassorbimento in sede intestinale. Anche essa viene prescritta in gocce o in capsule molli in prescrizioni giornaliere, settimanali o mensili. Il colecalciferolo, di contro, trova la sua indicazione principe nei soggetti affetti da osteoporosi e/o che assumono contestualmente farmaci per la cura di tale patologia».
Secondo Cesareo infine i metaboliti del tutto attivi e che non necessitano quindi dell’attivazione epatica o renale «trovano un campo di utilizzo molto più limitato, in particolare nei soggetti affetti da insufficienza renale o che sono carenti dell’ormone paratiroideo, quadro clinico che solitamente si riscontra nel soggetto operato di tiroide e di paratiroidi. Il loro ridotto utilizzo nel paziente con semplice carenza di vitamina D è dettato dal fatto che, rispetto alle due molecole descritte in precedenza, queste espongono il paziente a un maggior rischio di ipercalcemia e di aumentati livelli di calcio nelle urine».
Ad ogni modo le indicazioni alla terapia farmacologica rimangono, secondo l’Associazione medici endocrinologi, confinati al trattamento dell’ipovitaminosi D: «Al momento, nonostante ci sia una serie incontrovertibile di dati che associano la carenza di vitamina D ad altre malattie che non sono solo l’osteomalacia e l’osteoporosi (vedi diabete mellito, alcune sindromi neurologiche, alcuni tipi di tumori), non è dato sapere quali siano i dosaggi corretti di vitamina D che possano essere utili per ridurre l’incidenza di queste patologie correlate – ha spiegato Roberto Cesareo –. Riteniamo che sia giusto riportare questo dato in quanto far passare il messaggio che la vitamina D sia l’elisir di lunga vita, oltre che scorretto in quanto privo di evidenze scientifiche forti, rischia di essere oggetto di iper-prescrizione incongrua e con il rischio di assumere tale molecola senza reali benefici».
Andrea Peren
Giornalista Tabloid di Ortopedia
Bibliografia
1. Sempos CT, Heijboer AC, Bikle DD, Bollerslev J, Bouillon R, Brannon PM, DeLuca HF, Jones G, Munns CF, Bilezikian JP, Giustina A, Binkley N. Vitamin D Assays and the Definition of Hypovitaminosis D: Results from the 1(st) International Conference on Controversies in Vitamin D. Br J Clin Pharmacol. 2018 May 31.
2. Italian Association of Clinical Endocrinologists (AME) and Italian Chapter of the American Association of Clinical Endocrinologists (AACE) Position Statement: Clinical Management of Vitamin D Deficiency in Adults. Nutrients 2018, 10, 546. www.mdpi.com/journal/nutrients