Antonio Andreacchio (a sinistra), del reparto di ortopedia pediatrica dell’ospedale infantile “Regina Margherita” di Torino con il dottor John Dormans (a destra) del Children’s Hospital di Philadelphia.
L’equipe del dottor Andreacchio è l’unica a utilizzare in Italia (e forse anche in Europa) questa tecnica per il trattamento delle cisti solitarie dell’osso in età pediatrica ideata proprio da Dormans.
Le cisti solitarie dell’osso sono una patologia tumorale benigna che determina un progressivo assottigliamento delle corticali e di conseguenza determina, nella maggior parte dei casi, una frattura patologica. Tale evento acuto consente di diagnosticare la malattia in oltre il 50% dei casi. Molto più rara è la scoperta incidentale, dovuta all’esecuzione di un esame radiografico eseguito per altri scopi, che mette in evidenza la presenza della cisti a carico di un segmento osseo.
Tale neoformazione si manifesta a carico delle ossa lunghe dei bambini e consiste in una cavità ossea che è ripiena di un liquido di colore giallastro e all’ interno la parete della cisti è rivestita da una cuticola di membrana con uno strato di cellule epiteliali e separata dal canale endomidollare da una sottile linea sclerotica.
Virchow fu il primo a segnalare questa entità nel 1876. Da allora innumerevoli studi e pubblicazioni hanno cercato di scoprire la sua patogenesi e anatomia ma, ad oggi, seppure molto sia stato chiarito dal punto di vista anatomo patologico, rimane ancora oscura la causa della formazione della lesione litiga.
La problematica è caratterizzata da un’estrema persistenza della cavità con alto rischio di fratture e alta percentuale di recidive in seguito al trattamento.
Le alternative terapeutiche
Nel corso di tutto questo tempo numerose sono state le metodiche proposte per risolvere la lesion litica: alcune piuttosto destruenti e invasive come la proposta pubblicata da Badgley sul Journal Bone & Joint Surgery nel 1957, che proponeva di collassare la cisti e riempire la cavità con bone graft. Altri autori negli anni Ottanta pubblicarono casistiche in cui il trattamento proposto era quello di eseguire un’emidiafisectomia con o senza bone grafting.
Con gli studi effettuati sulla anatomopatologia della malattia nel corso degli anni la chirurgia si è indirizzata specificatamente nel cercare di rimuovere l’osso patologico e nel cercare di stimolare la neoapposizione di osso nel contesto della cisti.
Il ventaglio di opzioni a disposizione dell’ortopedico per il trattamento delle cisti solitarie dell’osso è attualmente molto variegato: si passa dal curettage della lesione combinata con borraggio di chips ossee sia autologhe che omologhe passando attraverso criochirurgia o idrossiapatite. Altre tecniche proposte con altalenanti percentuali di successo sono state la decompressione della cisti eseguendo multipli fori, la storica terapia attraverso iniezioni multiple a base di corticosteroidi vanto della scuola italiana o la più recente con iniezioni di midollo osseo autologo.
L’opzione dell’inchiodamento endomidollare
Il primo lavoro sul trattamento delle cisti con inchiodamento endomidollare è stato merito di Santori e colleghi nel 1986. Tale metodo è stato trascurato fino a che non è stato ripreso e validato definitivamente da Roposch sul Journal Bone & Joint Surgery nel 2000 e poi confermato con una casistica e un follow up più a lungo termine nel 2008 da parte di de Sanctis e Andreacchio nel 2006 sul Journal of Paediatric Orthopaedics.
Questo ultimo metodo, per quanto assolutamente efficace, è una tecnica che impegna paziente e chirurgo e che consiste nell’impianto di un mezzo di sintesi all’interno del canale midollare. Se tale tecnica è, a mio parere, altamente raccomandabile nel caso di localizzazione della cisti a livello del collo del femore in quanto previene collassi e previene le pericolose conseguenze di una frattura a tale livello, in un distretto cruciale, nel caso in cui la cisti si localizza a livello dell’arto, superiore potrebbe non sempre essere accettata con facilità dai pazienti e dalle loro famiglie e potrebbe essere sostenuta con meno vigore dal chirurgo che la propone.
Il trattamento con perle di solfato di calcio
Soprattutto all’arto superiore, meno esposto al rischio di drammatiche e gravi conseguenze dalle fratture patologiche, potrebbe essere più utile avere a disposizione un metodo meno invasivo ma, nello stesso tempo, parimenti efficace.
La risposta sembra essere stata data da John Dormans del Children’s Hospital di Philadelphia che per primo ha pubblicato sul Journal of Paediatric Orthopaedics nel 2005 una casistica di pazienti trattati con perle di solfato di calcio (Osteoset, Wright Medical Technology, Arlington, Texas, Usa) introdotte a riempire la cavità ossea previo curettage della pareti della cisti e con apertura del canale. Questo ha notevolmente migliorato l’approccio, che risulta essere mininvasivo attraverso un’incisione di un paio di centimetri che consente di giungere sulla corticale dell’osso.
La tecnica consiste quindi in un approccio mininvasivo attraverso una mini open incision con aperture di una piccola finestra sulla corticale della cisti; si introducono quindi delle curette a diversa angolatura in modo da riuscire a eliminare la superficie interna della cisti; attraverso l’introduzione di un chiodo di Nancy si apre il canale il midollare in modo da creare comunicazione tra cisti e canale midollare, sia in senso prossimo distale che disto-prossimale.
A questo punto grazie al suo introduttore si inseriscono le perle di solfato di calcio grazie al suo introduttore e procedendo a riempire la cavità cistica e avanzando man mano con la curette a compattare e stipare le pellets in modo tale da ben riempire la cisti.
In tale fase risulta essere molto importante il controllo in scopia dello stato di riempimento della lesione in modo tale da consentire di non lasciare zone libere all’interno della cisti. Quando la cisti risulta essere ben riempita sarà sufficiente suturare la piccola incisione e mantenere a riposo l’arto senza dover procedere a immobilizzazioni gessate. Per quanto riguarda l’arto superiore sarà più che sufficiente consigliare al paziente di mantenere il braccio al collo per qualche giorno nel periodo post operatorio.
Una radiografia viene eseguita il giorno successivo all’intervento; un’altra a distanza di un mese, quindi a tre, sei e 12 mesi dall’intervento.
La capacità assolutamente osteoinduttiva delle perle di solfato di calcio che risultano ben presenti alla radiografia post operatoria, dando un aspetto “impallinato” della lesione, dopo un mese sono pressocchè quasi totalmente scomparse, sostituite da neoapposizione ossea.
I controlli a tre, sei e a 12 mesi servono a verificare che non vi sia una riaccensione del processo litico che, secondo la letteratura, è evento suscettibile nel circa il 20% dei casi. In tal caso potrà essere ripetuta l’intera procedura sopra descritta. La cisti solitaria nella maggior parte dei casi tende a guarire con neo apposizione ossea grazie all’osteoconduttività indotta dalle pellets di solfato calcico che, scomparendo nell’arco di un mese, non risulta ostacolare la perfetta visualizzazione della regione litica. Questo inconveniente è presente invece nei casi in cui vengono introdotti materiali a base di trisolfato calcico, sostanza che permane a lungo nell’organismo, con aree di radiopacità che impediscono di valutare se il processo patologico è attivo o in fase di risoluzione.
Allo stesso tempo non andrà sottovalutato l’aspetto squisitamente economico in quanto tale metodica ha dei costi contenuti.
La tecnica con l’iniezione di corticosteroidi secondo Scaglietti necessita di ripetuti interventi e pertanto andrà tenuto conto dei costi di ospedalizzazione, senza contare i rischi seppure bassi delle ripetute anestesie a cui va sottoposto il paziente.
Altre metodiche risultano più costose per l’utilizzo di tecnologie ad alto costo, come per esempio quelle che prevedono l’utilizzo di pappe piastriniche.
Il solfato di calcio è una sostanza inorganica ed osteoconduttiva. È utilizzata fin dal 1892 per riempire difetti ossei e per agire come sostituto dell’osso. I progressi dell’ingegneria biomedica hanno espanso le possibilità del suo utilizzo come sostituto osseo; il processo di preparazione industriale attualmente permette la presenza di una struttura cristallina estremamente uniforme che consente di essere biodegradabile, radiopaca e con un elevato riassorbimento in vivo.
Nel primo lavoro di Dormans e colleghi già citato del 2005 su 28 bambini, il chirurgo riportò una completa guarigione nel 91,7% dei casi e solo due pazienti ebbero una persistenza della cisti dopo il trattamento e di questi uno guarì dopo la ripetizione di una seconda procedura descritta.
Gli autori conclusero che l’alta percentuale di guarigione ottenuta con una tecnica a basso costo economico, a lieve impatto chirurgico, con una bassa percentuale di complicazioni e di reintervento autorizzava a proseguire su questa strada il trattamento delle cisti solitarie. La metodica descritta accoppiava l’efficacia dell’osteoinduttività senza dover procedere a prelevare osso autologo dal paziente.
Forti dell’esperienza dei colleghi del Children’s Hospital di Filadelfia abbiamo seguito le loro orme e abbiamo adottato, soprattutto per quel che riguarda localizzazioni all’arto superiore, un trattamento già largamente da loro sperimentato con successo (ad oggi i casi trattati a Filadelfia sono parecchie centinaia) e i risultati a tutt’oggi sono sovrapponibili a quelli dei colleghi americani. La tecnica da noi utilizzata è la stessa anche se, ovviamente, i nostri numeri sono limitati, anche perché abbiamo iniziato a eseguire tale metodica nel gennaio del 2011.
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