
Christian Carulli, membro
del Comitato artroscopia della Sigascot, dal 2010 è ricercatore presso la Clinica ortopedica
dell’Aou Careggi di Firenze
La ricostruzione di singolo fascio è una tecnica giovanissima, con risultati promettenti ma preliminari. La stessa diagnosi di lesione parziale è complessa e richiede l’integrazione di dati clinici, immagini radiologiche appropriate e verifica artroscopica
Considerata la prevalenza delle lesioni del legamento crociato anteriore, soprattutto nella crescente popolazione dei giovani atleti, lo sviluppo di opzioni di trattamento diversificate in base alla tipologia del danno, atte a garantire non solo il recupero funzionale ottimale ma anche la rapida ripresa dell’attività sportiva, rappresenta ormai un’urgenza.
Una parte di tali lesioni, per esempio, interessano soltanto uno dei due fasci del legamento, ed è da qualche tempo che l’opportunità di intervenire sul solo fascio danneggiato, preservando quello integro, è oggetto di indagine e spinge al perfezionamento sia delle procedure diagnostiche sia delle tecniche chirurgiche.
Coautore di uno studio clinico su 12 casi di ricostruzione di singolo fascio del Lca condotto presso la Clinica ortopedica dell’Azienda Ospedaliero Universitaria Careggi di Firenze e presentato al congresso nazionale della Società italiana di ortopedia e traumatologia (Siot) del 2016, Christian Carulli ci ha descritto vantaggi e aspetti critici dell’intervento selettivo.
Dottor Carulli, quali sono le caratteristiche epidemiologiche delle lesioni parziali del crociato anteriore?
Di tutte le distorsioni di ginocchio con lesione del legamento crociato anteriore si stima che quelle parziali, ovvero quelle che interessano prevalentemente uno dei due fasci, anteromediale o posterolaterale, ammontino a una percentuale variabile tra il 5 e il 25%.
Per quanto riguarda i fattori di rischio il sesso maschile è mediamente coinvolto più spesso, mentre non sembra esserci sport, categoria professionale o livello di agonismo che risulti essere maggiormente predisponente.
Quali sono le indagini diagnostiche più appropriate ai fini dell’identificazione di una lesione parziale del Lca e ai fini della scelta della tecnica chirurgica?
Per tali lesioni non cambia l’iter diagnostico rispetto a quelle totali. Tuttavia, la diagnosi risulta più complessa. Infatti, clinicamente non sempre è facile riscontrare un Lachman o un cassetto anteriore positivi e raramente il pivot shift test fornisce informazioni. È dibattuto anche il significato del test mediante artrometro: dato che tali lesioni sono spesso isolate, cioè non si associano generalmente a significative lesioni meniscali, condrali o dei collaterali, un’instabilità lieve o moderata non sempre è verificabile, soprattutto se il paziente viene valutato tardivamente rispetto al momento dell’infortunio.
Diviene quindi essenziale più che mai in questi casi il supporto degli esami strumentali: una risonanza magnetica di almeno 1.5 Tesla con timing adeguato rispetto al momento del trauma e tagli sottili sul pivot centrale, oltre che un allineamento appropriato da parte del tecnico di radiologia, è determinante per valutare un’alterazione parziale.
Infine, altrettanto importanti sono la verifica mediante palpatore e con test intra-operatori, che sotto visualizzazione diretta permettono di aggiungere informazioni utilissime a quelle pre-operatorie. In questa fase anche l’esperienza del chirurgo è fondamentale.
Tuttavia, va sottolineato che al momento né le indagini diagnostiche né le manovre cliniche né i test intra-operatori si possono considerare attendibili isolatamente. Di ciò è ovviamente opportuno discutere con il paziente, in modo che venga adeguatamente informato prima dell’intervento sui criteri di scelta del chirurgo. E non solo per motivi medico-legali, ma anche per dar modo al soggetto di comprendere le caratteristiche della sua situazione. È infatti difficile ancora oggi trovare documentazione su questo tipo di lesioni e sulle relative opzioni di trattamento che sia accessibile ai pazienti, i quali non hanno pertanto possibilità di confronto con altre esperienze, come invece da decenni succede per le lesioni totali.
Per quale tipologia di pazienti è indicata la ricostruzione selettiva di un singolo fascio del Lca rispetto alla ricostruzione a doppio fascio?
Questo è uno degli aspetti più delicati e incerti. Ad oggi, come già detto, nessuna indagine clinica o diagnostica routinaria e neppure la verifica artroscopica diretta permettono di comprendere la reale “integrità” del fascio apparentemente indenne. Ricostruire quello lesionato e lasciare il fascio nativo eventualmente sano ha sicuramente vantaggi teorici e pratici. Ma qualora il fascio considerato intatto lo fosse sotto l’aspetto anatomico, per quanto è visibile, ma non avesse conservato l’integrità funzionale, la ricostruzione selettiva potrebbe creare i presupposti per una recidiva di infortunio, soprattutto nell’atleta d’élite.
È pertanto ragionevole optare per la ricostruzione selettiva in soggetti molto giovani e che non pratichino sport di salto o ad alta richiesta funzionale, come per esempio lo sci o il rugby.
Per quale tipologia di pazienti può essere, al contrario, controindicata?
Come accennavo, nelle discipline atletiche di salto, in sport come lo sci e il rugby oppure in soggetti non giovanissimi la ricostruzione totale o la ricostruzione del fascio lesionato abbinata ad augmentation del presunto fascio intatto sono da preferire. Almeno fino a che un adeguato follow-up condotto su casistiche importanti non ci darà informazioni diverse. Lo stesso vale, ovviamente, per tutti i casi in cui le indagini diagnostiche non abbiano sciolto ogni dubbio circa l’integrità funzionale del fascio residuo.
Bisogna ricordare che la ricostruzione selettiva è una tecnica giovanissima, come dimostrano i pochissimi lavori presenti in letteratura e quelli attualmente in pubblicazione, e che, quindi, i risultati finora ottenuti devono tuttora essere considerati solo preliminari.
Quali sono, dal punto di vista della tecnica chirurgica, i criteri e le procedure consigliabili nell’esecuzione della ricostruzione del singolo fascio?
Dal punto di vista tecnico normalmente è un intervento più semplice della ricostruzione totale. È necessario prelevare uno solo degli hamstring oppure disporre di un solo tendine da cadavere. La creazione del tunnel avviene semplicemente verificando la posizione dei monconi prossimale e distale del fascio lesionato e seguendo, come guida, il fascio integro. Questo permette l’uso di qualsiasi tecnica (trans-tibiale, out-in), e inoltre il diametro del tunnel è piccolo, generalmente 5-6 millimetri. È chiaro che l’esecuzione dei passaggi deve essere precisa, in quanto un danno iatrogeno al fascio sano, soprattutto se quello residuo è l’anterolaterale, imporrebbe la conversione della ricostruzione da selettiva a totale.
L’aspetto fondamentale è che il riscontro di una lesione parziale deve derivare da un’attenta valutazione clinica e strumentale pre-operatoria e deve essere corroborata dall’artroscopia diagnostica, che costituisce il primo passaggio dell’intervento.
Quali differenze si riscontrano in termini di decorso post-operatorio e di percorso riabilitativo tra singolo fascio e doppio fascio?
La ricostruzione del singolo fascio è chiaramente più agile e più veloce della ricostruzione totale. Il carico può essere concesso più precocemente, così come più rapido è il recupero del Rom, perché il fascio sano aiuta e assiste quello ricostruito nella fase di legamentizzazione. Inoltre, il mantenimento del fascio sano con la relativa vascolarizzazione e innervazione determina un indubbio surplus per il recupero muscolare e propriocettivo dell’articolazione. In sostanza, la ripresa dell’attività atletica può avvenire entro un periodo più breve, di circa 4-5 mesi.
Quali vantaggi comporta la ricostruzione del singolo fascio in termini di esiti anatomici e funzionali in follow-up di breve e di lungo periodo?
Qualsiasi chirurgo che si sia cimentato nelle ricostruzioni selettive nei casi indicati, o abbia “azzardato” la ricostruzione selettiva, a seconda della filosofia di partenza, ha potuto sperimentare nella maggioranza dei casi grande soddisfazione da parte dei pazienti.
Anche se al momento non abbiamo scale di valutazione o criteri specifici validati per tale tecnica, la sensazione di ritorno alla “normalità” e il recupero funzionale riferiti sono la conferma che a breve/medio termine esiste una prospettiva più che accettabile. In fondo, ricerchiamo sempre più una chirurgia conservativa e mininvasiva, e questa di fatto lo è.
Quali eventuali svantaggi?
I chirurghi che hanno usato questa tecnica possono avere nella propria casistica casi isolati di nuova rottura, anche completa, entro uno o due anni. Non è tuttavia sempre semplice comprendere la causa di questo evento e capire se si tratti di una recidiva di infortunio per un nuovo evento con energia efficace, oppure di una distorsione indotta da una “relativa” instabilità per la presenza di un fascio ricostruito e di uno apparentemente indenne dal punto di vista anatomico ma non funzionale che è stato “battezzato” come sano in occasione del pregresso intervento.
Servirebbero casistiche ampie e follow-up mirati per chiarire la natura di questi comunque pochi fallimenti.
Una riflessione deve invece essere senz’altro fatta sui mezzi di fissazione e tensionamento del neo-legamento in questo tipo di ricostruzione: ancora oggi non sono disponibili sistemi dedicati, per cui dobbiamo accontentarci di quelli utilizzati per le ricostruzioni totali. Disporre di un sistema di fissazione appositamente creato, soprattutto sul versante tibiale, e di un dinamometro per una tensione adeguata del singolo fascio, che deve essere minore rispetto a quella ricercata nelle ricostruzioni totali, sarebbe decisamente favorevole.
Alla luce di tali considerazioni, qual è il suo parere sul futuro della tecnica di ricostruzione selettiva?
L’ortopedia moderna dedica oggigiorno grande attenzione alla valutazione del paziente con lesione legamentosa del ginocchio, e mediante esami strumentali sempre più adeguati, sia dal punto di vista del timing che delle capacità di visualizzazione, può individuare lesioni che tempo fa non erano riconoscibili.
Sintetizzando quanto detto, con una selezione appropriata dei soggetti siamo già in grado di diagnosticare le lesioni parziali del legamento crociato anteriore e a seguito della necessaria verifica artroscopica, che deve dare la ragionevole certezza di tale tipo di alterazione, possiamo ricostruire in modo selettivo il legamento effettuando quindi una chirurgia meno invasiva e decisamente più confacente dal punto di vista anatomico. L’augmentation del fascio residuo sano è comunque sempre eseguibile e può fornire maggiore stabilità, come da decenni dimostrato.
Con la ricostruzione selettiva si possono ottenere risultati clinici egregi, al pari di quelli raggiunti con la ricostruzione totale, e oltretutto i tempi di recupero e riatletizzazione sono generalmente più rapidi grazie al mantenimento di una quota “nativa” indenne di legamento, con la relativa dotazione neuro-vascolare e le proprietà propriocettive.
Tuttavia, per quanto si tratti di una tecnica riproducibile e non complessa per artroscopisti con esperienza, come è sempre opportuno fare di fronte alle modalità di intervento innovative, dobbiamo anche in questo caso attendere risultati di medio e lungo periodo su casistiche numericamente congrue per raggiungere un grado di certezza sufficiente a rendere sia la diagnosi di lesione parziale, sia il trattamento selettivo routinari.
Monica Oldani
Giornalista Tabloid di Ortopedia
STUDIO CLINICO: I 12 PAZIENTI DEL CAREGGI DI FIRENZE
Un campione di 12 soggetti (su una serie consecutiva di 118 ricostruzioni di Lca effettuate tra il 2013 e il 2015) con lesioni parziali del legamento, sospettate clinicamente e alla risonanza magnetica e confermate in artroscopia, è stato sottoposto a intervento selettivo con ricostruzione, in tutti i casi tranne uno, del solo fascio antero-mediale mediante semitendinoso autologo, ed è stato seguito con follow-up medio di 13,6 mesi.
Dopo protocollo riabilitativo personalizzato, tutti i pazienti sono stati valutati a 6 e a 12 mesi con le due scale soggettive International Knee Documentation Committee (Ikdc) e Knee injury and Osteoarthritis Outcome Score (Koos), ottenendo i seguenti risultati: alla Ikdc valori medi di 96.1, il 55% dei pazienti in grado A e il 45% in grado B; alla Koos un punteggio totale di 96.8.
Nessuna complicanza intra e post-operatoria è stata registrata. A 14 mesi un solo paziente ha riferito sensazione di instabilità, per cui ha subito la ricostruzione del secondo fascio in un’altra struttura.
Il tempo medio di ripristino completo dell’attività fisica è risultato di 5,1 mesi. Dieci pazienti sono tornati al livello precedente all’infortunio, mentre gli altri due (tra cui il soggetto rioperato) hanno modificato la propria attività sportiva.
Carulli C, Innocenti M, Sirleo L, Matassi F, Innocenti M. Lesioni parziali del legamento crociato anteriore: epidemiologia, tecnica chirurgica, risultati clinici. 101° Congresso nazionale Siot, 28-31 ottobre 2016.