
Biagio Moretti
La ricerca prova a passare dal laboratorio alla clinica con nuove terapie che puntano ad aumentare la biocompatibilità di ogni intervento di chirurgia ortopedica. Grande alleato è l’osso, tessuto dalle grandi capacità rigenerative
Microambiente articolare, rigenerazione ossea e del disco intervertebrale, cinematica articolare, infezioni, bio-tribologia dei materiali, meccanobiologia della guarigione delle fratture, innovazioni nel trattamento dei tumori osteoarticolari: i temi affrontati nel prossimo Congresso nazionale della Italian Orthopaedic Research Society (Iors – www.iors.it) sono decisamente all’avanguardia.
Si tratta della diciassettesima edizione e a presiederla, il 4 e 5 dicembre a Bari, è Biagio Moretti, direttore della Uo di ortopedia e traumatologia del Policlinico universitario di Bari. Già a partire dal titolo, “Biomateriali e impianti in ortopedia e traumatologia – dalla ricerca al paziente”, gli organizzatori hanno voluto sottolineare i due poli attraverso cui le innovazioni si sviluppano e si affermano, il laboratorio e la clinica. Prima tra queste la medicina rigenerativa, nuovo paradigma i cui confini non sono ancora del tutto chiari.
Professor Moretti, in tema di medicina rigenerativa ci stiamo spingendo sempre più in là… nel congresso Iors di Bari si parla di microambiente articolare e del ricorso alle nanotecnologie: cosa possono fare già oggi e cosa promettono per il futuro?
È importante partire dalla definizione generica di «microambiente», termine ormai estremamente diffuso e forse abusato in diverse materie. Per microambiente si intende, in maniera generica, l’insieme delle caratteristiche climatiche di una zona limitata e circoscritta, i cui valori sono diversi da quelli tipici dell’ambiente circostante. Si immagini un bosco o un fondale acquatico; sicuramente vi si realizzano delle condizioni specifiche che garantiscono la sopravvivenza delle specie tipiche di quel locus. Appare intuitivo, dunque, comprendere come all’interno del nostro organismo esistano numerosi e variegati microambienti. A differenza della natura, in cui un microambiente vive e si tramanda immutato per secoli se non millenni, la longevità degli stessi nel corpo umano è, ahimè, temporalmente limitata e soggetta a continui insulti da cui si innescano i processi degenerativi parafisiologici nonché patologici tanto temibili per la qualità della vita. Allungandosi peraltro l’età media della popolazione, gli stessi pazienti esigono una qualità di vita consona alle loro richieste funzionali.
Appare dunque imperativo intervenire in maniera congrua alle aspettative dei pazienti. Più precoce rispetto all’età cronologica è l’intervento dell’ortopedico, più rispettoso della biologia e della biochimica dovrà essere l’approccio chirurgico, al fine di promuovere il ripristino del microambiente.
Dopo l’introduzione e, ormai possiamo quasi affermare, la diffusione della chirurgia mininvasiva e di risparmio tissutale, con gli indubbi vantaggi in termini di rispetto dei tessuti, riduzione dei tempi di ripresa funzionale, riduzione delle complicanze perioperatorie, la ricerca procede nel tentativo di migliorare le prestazioni degli impianti, dunque le caratteristiche di tipo biomeccanico e di biocompatibilità. In quest’ordine di idee vanno introdotte le ricerche associate a nuovi biomateriali, sia nell’ambito della chirurgia ricostruttiva con i cosiddetti scaffold (cartilagine articolare, ligamenti, osso), sia di quella traumatologica e ancor più protesica, nell’introduzione di rivestimenti degli impianti con induttori capaci di promuovere l’osteointegrazione senza rinunciare alla resistenza (zirconio, idrossiapatite, tantalio).
Quali tessuti si possono (e potranno) rigenerare?
Se per rigenerazione si intende il riportare alla primitiva situazione anatomico-fisiologica di partenza un organo o un tessuto, l’impresa appare decisamente ardua. Ancor più per l’ortopedico, «viziato», oserei dire, dalla clemenza dell’osso, unico tessuto capace di rigenerarsi in modo assolutamente identico alla sua natura prima dell’insulto patogeno. Nonostante questo, lo stesso tessuto osseo appare storicamente quello con maggiore tradizione riguardo alla ricerca di suoi sostituti. Seppure infatti a molto valga l’utilizzo di innesti autologhi e omologhi di osso, provvisti di numerose proprietà tra cui quella di promuovere la rigenerazione tissutale, la ricerca ha permesso la sintesi dei cosiddetti sostituti e derivati ossei di origine sintetica o animale. Sicuramente tali presidi hanno oggi una tradizione nella chirurgia ortopedica e traumatologica con risultati decisamente soddisfacenti; essi tuttavia agiscono in genere in prossimità di un substrato, l’osso, che ha già, come precedentemente affermato, la volontà di rigenerarsi.
Interessante appare ancor di più il percorso intrapreso rispetto alla rigenerazione di tessuti quali legamenti e cartilagine. Tramite l’ingegneria tissutale infatti è stato possibile creare dei supporti biocompatibili, identificati col nome di scaffold, capaci di funzionare come matrice extracellulare ovvero di impalcatura tridimensionale su cui promuovere la proliferazione degli elementi cellulari del tessuto desiderato. A processo avvenuto, l’impianto verrà posizionato nel tessuto patologico, al fine di promuovere un’ulteriore proliferazione locale degli elementi cellulari e di ripristinare l’integrità consentendo un progressivo riassorbimento dello scaffold.
Quali sono le difficoltà maggiori perché si possa passare dalla ricerca di laboratorio alla pratica clinica?
La ricerca procede sicuramente in maniera entusiasta e, sia in vitro che in vivo, fornisce risultati interessanti.
Ritengo complessivamente due le problematiche fondamentali. In primis, la necessità di costituire strutture di riferimento formate da centri sperimentali annessi a unità cliniche. In tale ottica sarà possibile diffondere una buona pratica clinica al fine di ottenere il massimo dei risultati. La seconda problematica, attualmente molto sentita, è quella riguardante i costi. L’introduzione delle nanotecnologie rappresenta un investimento per certi versi azzardato non avendo ad oggi riscontri clinici di ampio respiro; solo direzioni sanitarie dotate intraprendenti, oserei dire coraggiose e lungimiranti, potranno dare la possibilità a questa realtà di crescere e diffondersi.
A che punto siamo con la rigenerazione ossea?
La rigenerazione ossea può essere considerata la capostipite di tutti i tentativi di rigenerazione. L’osso autologo rappresenta ancora il riempitivo ideale nei difetti ossei; tale metodica non è tuttavia scevra da complicanze, tra cui la più descritta è la comorbidità a carico del sito donatore. Materiali biocompatibili e bioriassorbibili, quali le ceramiche porose (idrossiapatite prima tra tutte), appaiono dotati di due delle tre caratteristiche fondamentali di un innesto: osteoconduttività e osteoinduttività. Le cellule dell’osso possono dunque colonizzare tali supporti tridimensionali in maniera ordinata fino al riempimento del difetto. La terza caratteristica fondamentale di un innesto è la sua capacità di generare cellule dell’osso ovvero essere osteogenico. Ciò appare oggi possibile tramite l’utilizzo di fattori di crescita derivati dai centrifugati piastinici associati o meno a cellule mesenchimali entrambi prelevati dallo stesso paziente e introdotte a livello del difetto osseo.
Mi sembra doveroso inoltre ricordare che l’osso risente positivamente, nei suoi processi riparativi, di stimoli meccanici e biofisici nonché farmacologici, che devono a mio avviso coadiuvare qualsiasi tipo di procedura.
E riguardo al disco intervertebrale?
Il processo degenerativo a carico del disco intervertebrale, a seguito di un inevitabile processo di invecchiamento di tipo naturale o patologico, rappresenta una delle principali cause di lombalgia cronica. La rigenerazione del disco intervertebrale è una delle sfide più ambiziose vista anche la sua complessità anatomica e molecolare, essendo costituito dal nucleo (tessuto soffice altamente idrofilico con funzione di ammortizzatore), fino all’anulus (tessuto fibroso con funzione di contenimento) e agli endplate (tessuto più rigido che assicura trofismo e continuità all’interfaccia con le vertebre).
Numerosi sono stati in questi anni gli sforzi per realizzare sostituti biocompatibili del nucleo polposo, iniettabili nel corpo mediante tecniche chirurgiche o vie d’accesso anatomiche mininvasive. Sebbene dotati di un effetto riempitivo, tali dispositivi non si sono dimostrati, nel tempo, capaci di ripristinare la biomeccanica della colonna: pertanto sono stati presi in considerazione nuovi materiali, come gel iniettabili bioattivi costituiti da collagene e acido ialuronico, rinforzato con microsfere di gelatina, dotati sia di proprietà biomeccaniche che, ancor più interessante, rigenerative. Anche a questo livello l’iniezione topica di condrociti e cellule mesenchimali autologhe rappresenta, secondo alcuni, una valida risorsa; di recente, un gruppo di studiosi giapponesi, tramite una review degli studi clinici attualmente pubblicati, ha ridimensionato il ruolo di tali presidi, riconoscendo la difficoltà per tali cellule di sopravvivere in un ambiente scarsamente vascolarizzato quale il nucleo polposo. Ulteriori studi in vitro appaiono dunque necessari per affinare le strategie attualmente disponibili.
Quali patologie possono principalmente avvalersi delle tecnologie rigenerative?
Ritengo che sia le patologie traumatiche e dunque acute, gli esiti invalidanti di queste, sia la più comune patologia cronica degenerativa possano trarre beneficio dal ricorso a tali tecnologie. Nella fattispecie, l’introduzione di rivestimenti dotati di proprietà osteointegranti negli impianti ovvero di scaffold per i danni cartilaginei o ligamentosi – penso ad esempio alla ricostruzione del legamento crociato anteriore – può certo aprire ambiti di applicazione meritevoli di approfondimenti in vitro e in vivo.
Personalmente ripongo numerose aspettative riguardo a tale tematica: rappresenta un approccio all’ortopedia innovativo e interessante, una strada da poter percorrere e che non risparmierà nuove acquisizioni nell’ambito della patologia muscolo-scheletrica.
Renato Torlaschi
Giornalista Tabloid di Ortopedia
CONGRESSO SICM: FOCUS SULLA TERAPIA FARMACOLOGICA
DELLA MALATTIA DI DUPUYTREN
All’ultimo congresso della Società italiana di chirurgia della mano (Sicm) in una sessione dedicata si è parlato della malattia di Dupuytren, patologia della mano caratterizzata dalla flessione progressiva e permanente di una o più dita, e della recente terapia farmacologica con l’enzima collagenasi di Clostridium histolyticum che consente di trattare, senza ricorrere alla chirurgia, la maggior parte delle contratture palmari legate a questa patologia.
Nicola Felici dell’unità operativa di chirurgia ricostruttiva degli arti dell’ospedale San Camillo Forlanini di Roma ha presentato i risultati ottenuti con l’impiego della collagenasi, misurando l’efficacia in termini di recidiva a tre anni. «Ho confrontato i risultati ottenuti con quelli conseguiti con la cordotomia percutanea ad ago su un gruppo di pazienti con caratteristiche simili – ha spiegato Felici –. I dati dimostrano che, sia per le retrazioni delle articolazioni metacarpo-falangee, sia per quelle interfalangee prossimali, l’incidenza di recidiva, a tre anni dalla terapia con collagenasi, è pressoché dimezzata rispetto al gruppo di pazienti trattati con cordotomia percutanea ad ago».
«La frequenza di recidive nel trattamento della malattia di Dupuytren, in particolare nei pazienti giovani, insieme al riscontro, avvalorato nel corso degli anni, di problemi legati alla chirurgia delle recidive dopo precedenti interventi, hanno indotto la comunità scientifica ad eseguire sempre più spesso interventi di tipo mininvasivo – afferma Mario Igor Rossello, direttore del Centro regionale di chirurgia della mano presso l’Ospedale S. Paolo di Savona –. L’avvento della collagenasi ha permesso di risolvere buona parte dei casi grazie a un trattamento non invasivo, che offre maggiori possibilità di durata nel tempo del risultato funzionale e la possibilità di ripetere il trattamento in caso di recidiva; per queste ragioni, ad oggi, è da considerarsi il trattamento di prima scelta in tutte le forme di questa patologia nelle quali risulta indicato». Anche Giorgio Pajardi, direttore dell’Uoc di chirurgia della mano del Gruppo MultiMedica di Milano ha presentato dati che dimostrano l’efficacia di questa terapia sottolineando però che «Nonostante in Italia siano stati autorizzati all’utilizzo di collagenasi molti centri, la realtà evidenzia che solo pochi di questi utilizzano realmente questo trattamento». Secondo il presidente del congresso Antonio Castagnaro molti colleghi sarebbero ancora diffidenti anche se «questa terapia non ha evidenziato importanti problematiche relative alla sicurezza del prodotto e, di conseguenza, non c’è motivo per evitare il suo utilizzo. Si tratta di un trattamento semplice, che porta a un risparmio di tempo, sofferenza per il paziente e costi sul lungo periodo. L’unico limite è che non è applicabile a tutti gli stadi della malattia» ha spiegato Castagnaro.