
Marco Viganò e Laura de Girolamo
Laboratorio di biotecnologie applicate all’ortopedia – Irccs Istituto Ortopedico Galeazzi di Milano
La scienza di base ha indagato a fondo gli strumenti della medicina rigenerativa, dal plasma ricco di piastrine alle cellule staminali mesenchimali. Mancano invece dati clinici che ne supportino a pieno l’utilizzo e per questo nasce il progetto Regain
La medicina rigenerativa parte da un concetto molto semplice: se il nostro organismo è in grado di riparare autonomamente danni di (relativamente) piccole dimensioni, può essere anche capace, se messo nelle condizioni ottimali, di contrastare anche processi patologici più complessi. I trattamenti di medicina rigenerativa sfruttano quindi elementi derivati dal paziente stesso, per trattare patologie degenerative oppure caratterizzate da perdite di tessuto.
L’individuazione degli elementi capaci di promuovere la guarigione del tessuto ha richiesto e continua a richiedere molti studi di ricerca di base, che hanno coinvolto sia elementi cellulari che subcellulari. La scoperta di questi elementi tra loro diversi, con proprietà simili e promettenti, ha contribuito alla “corsa agli armamenti”, ovvero alla nascita di molti prodotti commerciali di medicina rigenerativa che differiscono tra loro per piccoli dettagli, e che sono via via stati applicati a un variegato spettro di patologie diverse, sfruttando metodi di preparazione, somministrazione e analisi non standardizzate.
In tutto questo, le evidenze scientifiche sono state diluite in un mare di informazioni, generando molta confusione. Questa confusione è ciò che oggi frena realmente lo sfruttamento clinico dei ritrovati di medicina rigenerativa.
Il plasma ricco di piastrine
Ad esempio, il primo ritrovato della medicina rigenerativa, sia in termini cronologici che per volumi di utilizzo, ad oggi è il plasma ricco di piastrine (Prp), del quale esistono diverse varianti, in presenza o assenza di leucociti, con diverse metodi per l’attivazione, che possono essere utilizzate mediante protocolli differenti per quanto riguarda tempistiche e frequenza delle somministrazioni. In realtà, il Prp sfrutta semplicemente una procedura di centrifugazione a gradiente volta a concentrare le piastrine del sangue periferico in modo che, una volta attivate, possano rilasciare il contenuto dei granuli α, nei quali si trovano molti fattori di crescita (come PDGF, TGFβ, FGF-2, IGF-1 e -2, VEGF, EGF, KGF, CTGF) e citochine (IL-8), che possono favorire la proliferazione cellulare delle cellule residenti nel tessuto danneggiato, la vascolarizzazione e la modulazione dell’infiammazione, come avviene fisiologicamente nel momento in cui ci si procura una ferita e si forma il coagulo.
Risultati evidenti, tanto da non essere più oggetto di discussione, sono stati ottenuti nella chirurgia dentale e maxillo-facciale, dove il Prp viene abitualmente utilizzato per sopperire alla perdita di tessuto osseo, anche in combinazione con biomateriali, per favorire la crescita e l’integrazione degli innesti. Altri risultati positivi sono stati ottenuti nel trattamento di difetti cartilaginei e patologie tendinee, ma sebbene molti studi pubblicati in letteratura abbiano mostrato risultati promettenti, finora non è stato possibile raccogliere evidenze scientifiche tali da giustificarne la certezza dell’indicazione, con l’eccezione dell’epicondilite laterale, in cui il Prp ricco di leucociti ha mostrato benefici a lungo termine superiori rispetto ad altri trattamenti conservativi.
Una delle critiche che può essere mossa al Prp è quella di non essere “plastico”, ovvero una volta iniettato ed esaurito il suo contenuto di molecole bio-attive, non può rinnovarsi o adattarsi, nel caso la situazione persista o muti senza portare alla guarigione. Per ottenere un comportamento adattativo di questo genere è necessario utilizzare elementi vitali, in grado di reagire al microambiente in cui si trovano e che siano in grado di rispondere adeguatamente ad esso.
Le staminali mesenchimali
Questi elementi sono stati identificati nelle cellule staminali mesenchimali (MSC), che nel corso degli anni hanno dimostrato di poter contribuire alla guarigione dei tessuti sia per differenziamento diretto verso le linee cellulari (osteoblasti, condrociti) che sono andate perse durante il danno o la progressione della patologia, sia tramite la produzione di una vasta gamma di fattori di crescita, molecole anti-apoptotiche, anti-fibrotiche e immunomodulatorie. Grazie alla loro azione combinata, queste molecole possono contrastare il microambiente patologico, per esempio in presenza di infiammazione cronica, e ristabilire la corretta omeostasi tissutale, favorendo la guarigione.
Inizialmente individuate a livello del midollo osseo, le MSC sono via via state identificate nella quasi totalità dei distretti corporei, cosa che è sembrata sorprendente fino alla scoperta della loro natura di periciti, ovvero quelle cellule che si localizzano sulla superficie esterna dei vasi sanguigni e sono praticamente ubiquitarie. Questi periciti non rappresentano quindi cellule staminali propriamente dette, ma sono piuttosto medicinal signalling cells (mantenendo l’acronimo MSC), cellule in grado di percepire i segnali di danno (damage associated molecular pattern, DAMPs) e attivarsi di conseguenza per migrare (fare homing) nel sito patologico, dove rilasciano le molecole necessarie a mediare il corretto processo riparativo.
Gli studi preclinici e i trial clinici che hanno utilizzato le MSC per patologie anche molto differenti, dall’ischemia ai danni renali, fino all’osteoartrosi e la graft-versus-host disease, hanno mostrato che esse sono in grado di dare grandi benefici. Tuttavia, la maggioranza di questi studi ha utilizzato grandi numeri di MSC selezionate ed espanse in laboratorio, pratica che comporta costi molto elevati per la manipolazione delle cellule in regime di good manifacturing practice e per le due sedute chirurgiche necessarie per prelievo e re-impianto. Inoltre, l’utilizzo di xenoreagenti (come gli enzimi necessari alla digestione dei tessuti) e l’estensiva manipolazione delle cellule, fa in modo che le MSC così prodotte ricadano sotto la regolamentazione degli ATMP (prodotti medicinali di terapia avanzata), che ne limita ampiamente l’utilizzo.
Per superare questi limiti e sfruttare le potenzialità delle MSC in un contesto clinico, sono stati sviluppati recentemente diversi approcci per il loro isolamento intraoperatorio e la somministrazione in una singola seduta chirurgica. I tessuti normalmente considerati per questo tipo di approccio sono il midollo osseo e il tessuto adiposo, il cui prelievo è caratterizzato da una ridotta morbidità del sito donatore. Non avendo tuttavia la possibilità di selezionare una popolazione cellulare omogenea in laboratorio, questi approcci utilizzano sospensioni cellulari con percentuali minoritarie di MSC (per il midollo osseo circa lo 0,1% delle cellule nucleate, e fino al 10% utilizzando il tessuto adiposo) rispetto ad esempio a cellule della linea ematopoietica, e con numeri molto inferiori rispetto a quanto fornito dagli approcci con cellule espanse.
Ciononostante, anche in numeri così esigui, diversi studi hanno dimostrato l’efficacia di queste applicazioni, anche in correlazione proprio al numero di cellule iniettate nel paziente. Ad esempio, uno studio ha dimostrato che il concentrato di midollo osseo (BMAC) ha ridotto la percentuale di recidive in seguito a riparazione chirurgica della cuffia dei rotatori, ma solo nei casi in cui i pazienti fossero stati trattati con almeno 50.000 MSC. Una particolarità del BMAC, che generalmente si prepara per centrifugazione a gradiente a partire da sangue midollare, è che contiene lo stesso quantitativo di piastrine del PRP, spesso preparato con gli stessi strumenti, ed è quindi in grado di unire le proprietà delle MSC a quelle del PRP.
L’utilizzo di concentrati cellulari derivati da tessuto adiposo presenta alcuni peculiari vantaggi, tra cui non ultimo quello di partire da un numero di MSC nettamente superiore rispetto al midollo osseo. Partendo da una liposuzione, i prodotti che si possono ottenere per digestione meccanica sono di due tipi: la frazione stromale vascolare (SVF) e il tessuto micro (o nano) frammentato. Se l’SVF si presenta come una sospensione cellulare di MSC, cellule della linea ematopoietica (tra cui un numero di eritrociti consistente, seppur in misura inferiore rispetto al BMAC) ed endoteliali, il tessuto micro-frammentato si presenta sotto forma di microscopici innesti di tessuto adiposo in cui il contatto tra gli elementi che lo compongono rimane inalterato, con il risultato di mantenere le MSC sotto forma di cellule in adesione all’interno della propria nicchia fisiologica (nicchia stromale), condizione che rappresenta un vantaggio in termini di sopravvivenza e funzionalità cellulare.
Tutte queste tecniche, sono impiegate con ottimi risultati nell’ambito vulnologico, per il trattamento delle lesioni cutanee a lunga guarigione, come piaghe da decubito, ulcere da piede diabetico e risultati di ustioni.
Nonostante nell’ambito ortopedico specifiche indicazioni non siano ancora state confermate, il BMAC ha fornito eccellenti risultati nel trattamento delle lesioni ossee, come l’osteonecrosi, e risultati positivi sono stati osservati anche quando è stato utilizzato come adiuvante nella riparazione della cartilagine con tecnica Amic, oltre che, come già detto, nella riparazione della cuffia dei rotatori. Risultati molto promettenti per quanto riguarda la tendinopatia achillea sono stati osservati utilizzando SVF, mentre il tessuto adiposo microframmentato ha fornito esiti molto favorevoli per il trattamento della degenerazione articolare.
Dato molto importante, trattandosi sempre di utilizzo autologo, non sono mai stati riscontrati effetti avversi significativi in nessuna delle tecniche descritte e in ogni caso non precludono la possibilità di eseguire qualsiasi tipo di trattamento successivo.
Siamo in una fase esplorativa ma i trattamenti sono sicuri
Quindi, nonostante la grande complessità delle interazioni biologiche che sta alla base delle tecniche di medicina rigenerativa, e soprattutto le tortuose vicissitudini che ne hanno accompagnato lo sviluppo, è possibile affermare che ad oggi rappresentano una possibilità di trattamento estremamente promettente e sicura.
Come tutte le frontiere, la medicina rigenerativa è ancora in fase esplorativa. Spesso porta buoni risultati, altre volte meno soddisfacenti, e ulteriori dati sono necessari per comprovarne la reale efficacia.
PROGETTO REGAIN: L’IMPORTANZA DELLA RACCOLTA DEI DATI_Nell’ambito della medicina rigenerativa aleggia tra la comunità medica un senso di incertezza, che molto spesso sfocia in scetticismo, circa la reale efficacia di queste tecniche. Questo perché a fronte di una notevole e qualitativamente elevata ricchezza di lavori di scienza di base, vi è una mancanza di dati clinici che ne supportino l’utilizzo. Non parliamo solo della scarsità di studi randomizzati controllati, che necessitano di importanti risorse e di setting particolari per essere svolti, ma anche di una semplice raccolta longitudinale dei dati dei pazienti trattati nei diversi centri.
Solo avendo a disposizione dati clinici completi e attendibili si potrà risalire alla reale efficacia di questi trattamenti, ponendo indicazioni più precise e stabilendo protocolli applicativi specifici per ogni tipologia di trattamento e di patologia. Ad eccezione di alcune grandi realtà, il numero esiguo di trattamenti eseguiti per singolo centro è stato una delle cause che ha disincentivato i medici a dedicarsi alla raccolta e all’interpretazione dei propri dati di medicina rigenerativa.
Da qui è nata l’esigenza di creare un sistema che permettesse di collezionare tutte queste informazioni in modo sinergico, al fi ne di arrivare ad avere le stesse informazioni per un numero consistente di pazienti. Una raccolta strutturata e standardizzata, che tenga in considerazione non solo le classiche valutazioni clinico-funzionali (e radiologiche) dei pazienti, ma anche caratteristiche personali, abitudini, stili di vita che in qualche modo potrebbero essere correlati all’efficacia dei trattamenti. Abbiamo quindi sviluppato una piattaforma per la raccolta dei dati, una sorta di “registro 3.0”, automatizzato, che segue e monitora i pazienti da remoto, condivisibile da più centri e che permette l’aggregazione dei dati, che speriamo ci permetterà di convertire il bisogno di informazione in risposte cliniche ben definite. Il progetto si chiama Regain (regain.iog@grupposandonato.it). Ma la medicina rigenerativa, oltre che migliorare la vita dei pazienti, è in grado di impattare anche sulla spesa sanitaria: meno farmaci antinfiammatori e analgesici, minore perdita di giorni lavorativi, ritardo dell’intervento chirurgico risolutivo di almeno due o tre anni.
Quanto impatterebbe tutto questo sulla spesa sanitaria e più in generale su quella pubblica? Da qui l’interesse della comunità scientifi ca e delle aziende del settore a studi di farmaco-economia che si basano sul concetto di costo-efficacia. Ma, ancora una volta, solo disponendo dei dati di efficacia si possono condurre studi di questo tipo e determinare l’opportunità di inserire alcuni trattamenti per alcune indicazioni
specifiche nel computo della spesa sanitaria nazionale. Una missione importante e delicata al quale il progetto Regain vuole contribuire, così come alcune società scientifiche che si stanno impegnando in questa direzione tra cui Sigascot, che riunisce una buona parte degli utilizzatori delle metodiche di medicina rigenerativa sul territorio nazionale e che vuole fare chiarezza sull’efficacia di tali trattamenti.
Marco Viganò
Laura de Girolamo