
L’avvocato Maria Livia Rizzo, laureata in giurisprudenza con una tesi in medicina legale e dottore di ricerca in diritto e nuove tecnologie, è assegnista di ricerca presso il Centro interdipartimentale di ricerca in storia del diritto, filosofia e sociologia del diritto e informatica giuridica dell’Università di Bologna e responsabile del Dipartimento di Health Tech Law presso la Divisione legale di MakeMark Company. Maria Livia Rizzo è anche socio fondatore e membro del consiglio direttivo dell’Italian Digital Biomanufacturing Network (Idbn)
SPECIALE ORTOPEDIA DIGITALE
C’è un vuoto normativo sui dispositivi per impianto stampati in 3D e anche il recente regolamento europeo, in vigore dal 2020, non contiene indicazioni precise. La responsabilità, infine, sarà necessariamente multiprofessionale.
Gli avanzamenti tecnologici e le prospettive applicative connesse, così come le aspettative dei settori di interesse nei confronti delle loro potenzialità innovative, si sviluppano spesso a un ritmo rispetto al quale il dibattito culturale, sociale e politico non riescono a tenere il passo. A maggior ragione questo accade nel settore delle scienze della vita e quando l’implementazione di nuovi mezzi capaci di intervenire sulla salute pone nuove sfide da un lato al sistema dei valori etici e dall’altro al complesso degli strumenti normativi di controllo. L’evoluzione delle tecnologie di stampa 3D in ambito sanitario rappresenta un perfetto esempio di questo gap culturale.
Molti sono i quesiti etici e i dilemmi giuridici in merito. Il percorso produttivo dei dispositivi medici 3D coinvolge una molteplicità di attori: dai ricercatori ai medici, dai tecnici informatici agli ingegneri progettisti, dalle strutture sanitarie alle aziende produttrici. Come dovranno essere distribuite le specifiche responsabilità medico-legali?
L’attuale regolamentazione per i dispositivi medici assegna al produttore l’obbligo di dotarli di una documentazione ufficiale di conformità secondo le procedure stabilite per legge. A quale normativa sarà soggetta la struttura sanitaria che dotandosi di una stampante 3D per la produzione autonoma di dispositivi custom-made assuma contemporaneamente il ruolo di committente e quello di fabbricante?
Qualora le produzioni di bioprinting diventassero una concreta realtà clinica potrebbe profilarsi all’orizzonte l’opportunità di destinarle alla fabbricazione di interi organi. Che direzione prenderanno il dibattito filosofico, bioetico e giuridico relativi alla generazione artificiale di parti del corpo? O addirittura alla loro brevettabilità?
Se il confronto sugli aspetti morali è urgente, ancor più pressante nel campo delle applicazioni biomediche della stampa 3D è quello sull’appropriatezza degli strumenti normativi.
Ne abbiamo parlato con l’avvocato Maria Livia Rizzo, alla luce della sua esperienza di ricerca su problematiche inerenti i rapporti tra diritto, nuove tecnologie e scienze della vita e sugli orientamenti giurisprudenziali in tema di responsabilità professionale in ambito sanitario, che svolge presso il Centro interdipartimentale di ricerca in storia del diritto, filosofia e sociologia del diritto e informatica giuridica dell’Università di Bologna.
Avvocato Rizzo, le applicazioni biomediche della stampa 3D sollevano questioni di natura giuridica ed etica del tutto nuove. Quali sono in questa prospettiva gli aspetti critici dell’impiego che già si fa delle tecnologie 3D in ambito sanitario?
Nel settore sanitario la stampa 3D è oggi utilizzata principalmente per la fabbricazione e per la realizzazione di modelli anatomici utili per la pianificazione chirurgica e di dispositivi protesici personalizzati. Per entrambi i casi si aprono questioni che, affinché questo settore così innovativo possa progredire ed espandersi, dovranno necessariamente essere affrontate a livello normativo.
In particolare, con riferimento alla produzione di dispositivi impiantabili, l’assenza di una regolamentazione di settore che imponga un controllo stringente delle specifiche del dispositivo stampato rischia innanzitutto di mettere in pericolo la sicurezza del paziente e in secondo luogo di ostacolare l’ulteriore sviluppo delle tecnologie di manifattura additiva in campo sanitario.
Analoghi quesiti sono tuttavia emersi negli ultimi anni anche in relazione alla qualificazione giuridica delle repliche anatomiche utilizzate per il planning preoperatorio. In tal senso si è recentemente espressa negli Stati Uniti la Food and Drug Administration, che ha identificato i modelli anatomici patient-specific stampati in 3D come dispositivi medici qualora vengano commercializzati per uso diagnostico, e che ha affermato che il software utilizzato per la realizzazione degli stessi deve essere considerato dispositivo medico di classe II, di fatto aprendo la strada a una prospettiva di sottoposizione alla normativa anche di questi strumenti, in virtù della loro finalità diagnostica.
Quali altri temi potrebbero aggiungersi al dibattito filosofico-giuridico con i presumibili sviluppi tecnologici e le applicazioni biomediche future della stampa 3D?
Nel panorama futuro della stampa 3D la tecnica in assoluto più dirompente è quella del bioprinting, che permette di stampare materiale biologico a partire da cellule umane integrate a strutture di supporto, per riprodurre tessuti viventi tridimensionali.
Ad oggi tale tecnica, che concettualmente affianca gli sviluppi della medicina rigenerativa, è ancora in fase sperimentale, anche se in prospettiva futura l’applicazione più radicale delineata per il bioprinting potrebbe essere la replica di interi organi.
Com’è implicito per ogni innovazione medica, a maggior ragione per la riproduzione di parti del corpo è pacifico attendersi dei rischi, che nello specifico caso del 3D, essendo molti gli attori coinvolti (aziende produttrici, tecnici informatici, ingegneri progettisti, chirurghi) dovranno essere gestiti a più livelli, in uno scenario di responsabilità multiprofessionale in caso di contenzioso.
L’esigenza primaria sarà comprendere quale sia la regolamentazione applicabile al bioprinting alla luce del quadro normativo corrente: in questo senso un primo indirizzo è stato fornito da un gruppo di lavoro operante in seno alla Commissione Europea, che ha associato i prodotti biostampati a “prodotti medicinali per terapia avanzata” ai sensi del relativo Regolamento (CE) n.1394 del 2007.
L’inquadramento giuridico dovrà altresì andare di pari passo con il dibattito religioso, socio-politico, filosofico e bioetico, che con ogni probabilità verrà innescato in relazione alla creazione artificiale di parti del corpo, anche nelle prospettive estreme del potenziamento umano, del pericolo di un mercato nero, di applicazioni funzionali al bioterrorismo.
Senza tralasciare, infine, gli aspetti assicurativi ed economici legati alla sostenibilità dei costi del bioprinting, con le connesse problematiche di politica sanitaria e di accesso alle cure.
Quali ambiti disciplinari sono o dovranno essere coinvolti in tale dibattito?
Saranno obbligatoriamente molti. Affrontare questi temi richiederà un approccio che connetta le competenze della medicina, della biologia cellulare, dell’ingegneria, della scienza dei biomateriali, dell’informatica e della fisica. Ma sarà necessario anche il contributo di bioeticisti, consulenti legali e assicurativi, filosofi ed economisti che siano in possesso di una adeguata conoscenza di queste tecnologie e delle problematiche etiche e giuridiche connesse al loro sviluppo, alle potenziali applicazioni biomediche e alla relativa implementazione nel contesto sanitario. Tutte queste professionalità saranno essenziali nell’affiancare da un lato le strutture cliniche e gli enti di ricerca e dall’altro le aziende nella implementazione delle suddette tecnologie nel contesto sanitario.
Quali adeguamenti normativi saranno prevedibilmente necessari per i dispositivi 3D?
In primo luogo, data soprattutto l’invasività di molti dispositivi realizzati con manifattura additiva, sarebbe opportuna una loro categorizzazione in classi di rischio differenziate, pari a quella prevista per i dispositivi medici convenzionali non custom-made, in base alla quale poter articolare le prescrizioni normative. Sarà poi necessario comprendere come verrà qualificato il processo manifatturiero di stampa 3D in ambito sanitario alla luce del nuovo regolamento.
Questi sono solo due esempi, ma il punto che al momento mi preme più ribadire è che, trattandosi di un campo in cui le valutazioni riguardano aspetti sia tecnici, sia clinici, sia giuridici, l’evoluzione in campo normativo dovrà scaturire da una collaborazione multidisciplinare, che coinvolga tutti i soggetti e le professionalità a vario titolo esperte della tecnologia e delle relative applicazioni.
Monica Oldani
Giornalista Tabloid di Ortopedia
URGENTE DEFINIRE NORME AD HOC PER I DISPOSITIVI 3D
I dispositivi medici realizzati con stampa 3D sono attualmente sospesi in una sorta di vuoto legislativo.
Attualmente, non essendo regolamentati da una normativa specifica, sono sottoposti alla tradizionale normativa sui dispositivi medici, che fino al 25 maggio 2020 saranno regolati dalla Direttiva europea 93/42 (Medical Devices Directive), recepita in Italia nel 1997 con il Decreto legislativo n.46. «Nell’ambito di tale normativa – spiega Maria Livia Rizzo – i dispositivi stampati in 3D, qualora fabbricati esclusivamente per un determinato paziente, devono essere fatti rientrare nella categoria dei dispositivi medici su misura (custom-made medical devices), i quali non sono soggetti alle prescrizioni destinate invece a quelli prodotti in serie, congruentemente con la relativa classe di rischio, atte a garantirne la conformità agli standard qualitativi e ai requisiti essenziali di sicurezza, la certificazione, la tracciabilità».
A partire dal 25 maggio 2020 i produttori di dispositivi medici dovranno adeguarsi alla nuova normativa rappresentata dal Regolamento UE 2017/745 (Medical Device Regulation), le cui prescrizioni, essendo il Regolamento UE un atto legislativo vincolante, si applicheranno in tutti gli Stati membri senza necessità di misure di recepimento da parte degli ordinamenti giuridici nazionali. «Tuttavia – precisa l’avvocato – così come la direttiva precedente, anche il nuovo regolamento non contiene indicazioni precise riguardo ai dispositivi stampati in 3D, ma a livello interpretativo apre una via alla possibilità che essi possano non rientrare più tra i dispositivi su misura, con le relative conseguenze in ordine al maggiore rigore normativo a cui verranno sottoposti».
«La problematica risiede nella circostanza per cui la normativa europea è stata redatta in un contesto in cui ancora i dispositivi medici su misura erano dispositivi a basso rischio, come per esempio le scarpe ortopediche – chiarisce Rizzo –. Il valore aggiunto della stampa 3D consiste però proprio nella personalizzazione estrema di dispositivi che possono essere anche impiantati nel corpo umano, come una porzione di teca cranica o una protesi articolare, e quindi corrispondere a categorie valutate ad alto rischio: per essi dunque, come per gli altri dispositivi e indipendentemente dalla qualifica di prodotti custom-made, dovrebbero essere previste procedure di controllo e certificazione da parte di organismi notificati».
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