
Angelo Leonarda
Con altri pensionamenti in arrivo, la carenza di personale si sentirà ancora di più. Intanto la traumatologia tira avanti con doppi turni e disagi del personale. La Convention Otodi prova a trovare soluzioni e pensa agli specializzandi
La quarta Convention Programmatica Otodi (e 54esimo congresso nazionale) si tiene l’11 e il 12 maggio a Catania. Il titolo, “Innovazioni in ortopedia e traumatologia”, non si riferisce solo agli aspetti clinici, anzi. Verranno infatti affrontati molti dei problemi organizzativi di una specialità che in questo periodo deve far fronte a numerose difficoltà. Ci si confronterà insomma su temi come i modelli organizzativi virtuosi per la gestione dipartimentale ortotraumatologica, l’ortogeriatria, i modelli organizzativi per la chirurgia robotica negli ospedali e sul percorso e gestione dello specializzando in reparto.
Ne abbiamo parlato con Angelo Leonarda, che con Egidio Avarotti di Catania e Giorgio Sallemi di Siracusa presiede l’evento. Oltre che direttore della Uoc di ortopedia e traumatologia presso l’Ospedale Buccheri La Ferla Fatebenefratelli di Palermo, Leonarda fa parte di Nuova Ascoti, il sindacato degli ortopedici, ed è il presidente regionale dell’Otodi.
Dottor Leonarda, qual è la situazione riguardo alle carenze di organico negli ospedali?
Ci sono diverse unità operative complesse costituite dal primario e una sola unità. Questo rappresenta un grandissimo problema organizzativo, sia riguardo alla gestione dei turni dei singoli operatori che alle garanzie della continuità assistenziale ai pazienti, in pronto soccorso e in reparto. Ne derivano numerosi altri problemi, per esempio per coloro che devono imporre la gestione dei turni straordinari.
Come si è prodotta questa carenza?
Come ha più volte documentato la Fondazione Gimbe – mi fa piacere ricordare la presenza al congresso Otodi del presidente Nino Cartabellotta – le cause sono abbastanza chiare. Sono stati determinanti un errore di programmazione e un problema economico, per cui non si sono ampliate le scuole di specializzazione e si sono sottovalutate le conseguenze.
Ricordo che noi di Otodi abbiamo fatto, ben vent’anni fa, un congresso insieme al presidente della società dei chirurghi francesi, che già da allora preannunciava, sia per la Francia che per l’Italia, quello che poi è avvenuto, ossia la forte carenza di professionisti della salute. Si tratta dunque di un disastro annunciato e certamente l’errore di valutazione non è stato dei medici.
Le difficoltà economiche hanno portato a ridurre l’accesso alle facoltà e a bloccare l’ingresso alle scuole di specializzazione. Credo che quest’ultimo sia stato l’errore più grave, perché il laureato in medicina e chirurgia ancora oggi è possibile reperirlo, se pur in numero ridotto, ma il problema vero è che non ci sono più gli specialisti.
Quali sono le prospettive?
Oggi si sta cercando di correre ai ripari, ma ci vorranno tra i quattro e i cinque anni affinché coloro che iniziano ora la specialità possano essere immessi nelle strutture che ne hanno bisogno. Certamente si sta facendo uno sforzo notevole e, specialmente per le specialità a fortissima criticità, in particolare l’anestesia, l’immissione sarà probabilmente sufficiente, ma bisogna aspettare e gestire il periodo di transizione. Nel breve termine, le carenze aumenteranno ancora, con gli annunciati pensionamenti di medici che erano entrati in grande quantità nel sistema prima dell’istituzione del numero chiuso.
Come ci si organizza nel frattempo?
Con doppi turni e disagi del personale, non c’è altra strada.
Si possono utilizzare gli specializzandi per rimpolpare il personale e dare una mano?
Assolutamente sì, ma era più facile durante la pandemia, mentre non è chiaro come si possano impiegare oggi gli specializzandi nei reparti. Questo problema sarà oggetto di un focus durante la Convention, organizzato dal presidente Enzo Caiaffa per cercare di capire quali sono i compiti che si possono affidare legittimamente a queste figure, che non sono ancora specialisti ma vengono immesse nel circuito sanitario proprio per le carenze e le esigenze strutturali.
Cosa dicono le normative?
Secondo gli ultimi orientamenti, risulta possibile assumere, con contratti a tempo determinato (co.co.co), gli specializzandi dell’ultimo anno: queste sono le indicazioni post-pandemia. Meglio di noi ci diranno i sottosegretari alla Salute e alla Giustizia, che interverranno al congresso.
Ci sono in ogni caso anche problematiche cliniche, perché questi specializzandi non arrivano con un bagaglio professionale completo, dato che in molte parti d’Italia la collaborazione tra università e ospedali resta deficitaria.
Quando lo specializzando entra in reparto, è complicato affidargli gestioni complesse come quella di un pronto soccorso o di un reparto; andrebbe coadiuvato da una figura di supporto, che però spesso non c’è.
Non è possibile attrarre medici dall’estero, tenendo anche conto del fatto che, almeno nell’Unione europea, ne è riconosciuta la libera circolazione?
In effetti questo sta succedendo; qui in Sicilia alcune provincie hanno reclutato medici in America Latina, ma la questione è delicata. Bisogna innanzitutto essere certi che vi sia una comprensione perfetta della lingua, necessaria per tutte le attività, dall’esecuzione di un intervento chirurgico alla compilazione delle cartelle, perché un errore di traduzione o di interpretazione di patologia potrebbe avere conseguenze molto gravi. Le possibilità di errore si riducono se si inserisce uno straniero dove sono già presenti 10 o 15 sanitari, ma se in una piccola struttura metà del personale arriva dall’estero, la difficoltà di gestire una realtà sanitaria sottodimensionata non si risolve. Ci sono poi differenze di formazione: si stanno organizzando corsi di aggiornamento e si cerca di rendere il più possibile equipollenti i titoli, e questo vale anche per gli infermieri.
Ma c’è un altro aspetto che va considerato. Se riempiamo le strutture con personale che viene dall’estero e contemporaneamente formiamo specialisti in Italia, quando questi termineranno la loro formazione troveranno le strutture già sature. Il rischio è che aumenti il fenomeno, già presente, di fuga oltralpe degli specialisti. Il danno è gravissimo: si destinano risorse ingenti, da parte dello Stato e delle famiglie, per formare, lungo undici anni tra laurea e specialità, figure professionali qualificate che poi andranno a essere produttive altrove. Senza voler essere protezionisti, questo punto merita una riflessione approfondita: la fuga all’estero riguarda anche altre figure oltre ai medici, che in altri Paesi trovano stipendi più alti o condizioni lavorative più vantaggiose.
A suo avviso, come si potrebbero superare queste difficoltà?
Nell’immediato serve ridistribuire gli specializzandi nelle strutture pubbliche sparse sul territorio; non è più pensabile che nelle strutture universitarie vi siano reparti con 20 o 30 specializzandi che, oltretutto, eseguono un numero di interventi insufficienti per una formazione completa. Deve esserci il giusto bilanciamento tra la parte educazionale pura e quella assistenziale, e questa noi negli ospedali la possiamo fare. Sarebbe un’immissione di braccia e creerebbe percorsi virtuosi con un migliore tipo di collaborazione tra ospedalità e università.
In Sicilia ci stiamo provando e ci siamo parzialmente riusciti, anche se ora è più difficile, perché le scuole di specialità si sono ridotte, ma non tutte le regioni d’Italia hanno questo vantaggio. È un aspetto già normato, ma aiuterebbe molto se fosse più stringente per le università.
Molti specialisti, invece di andare all’estero, si rivolgono alle strutture private
Anche questo si potrebbe sistemare. Chi l’ha detto che un ospedale pubblico non può essere appetibile da chi vuole un servizio customizzato, come lo si può erogare nel privato? Nel pubblico ci sono figure molto qualificate che, per anni, hanno salvato la nostra sanità: non è vero che quelli che rimangono siano meno bravi e io penso anzi che siano il baluardo di un sistema che garantisce una sanità veramente per tutti. Non ho nulla contro il privato, io stesso opero in una struttura a cavallo tra pubblico e privato, però è ovvio che gli obiettivi sono diversi.
L’integrazione tra pubblico e privato ci deve essere assolutamente, ma il pubblico può diventare altrettanto competitivo e attrarre specialisti dal privato. Si potrebbero per esempio migliorare le normative e attuare quelle che già esistono, riguardo all’intramoenia, liberando i medici dal vincolo dall’esclusività e dando loro la possibilità di lavorare in termini diversi all’interno degli ospedali pubblici.
Stiamo costruendo un sistema in cui sembra che negli ospedali si possa fare solamente la traumatologia e nient’altro, ma non dev’essere per forza così, dobbiamo dare agli ospedali la possibilità di realizzare le stesse cose che si fanno nel privato con la stessa tempestività e la stessa qualità. Allora i pazienti non se ne andrebbero, neppure chi ha la polizza assicurativa, perché l’ospedale può offrire delle garanzie al paziente che altre strutture non possono dare. La sanità pubblica rimane sofferente perché non è in grado di far fronte a quella parte di assistenza che oggi viene premiata economicamente.
La tendenza attuale della politica sembra quella di favorire il privato a scapito del pubblico. Si troverà un equilibrio?
L’equilibrio si può raggiungere, e lo dimostrano le numerose realtà in cui l’ospedalità pubblica ha realizzato convenzioni con quella privata. In Emilia Romagna gli operatori sanitari del pubblico possono andare in certe strutture private per erogare servizi che non si riuscirebbero a fornire nell’ospedale; il modello funziona e dovrebbe essere esportato in altre Regioni.
Anche i contratti dei sanitari potrebbero essere integrati; se dopo tanti anni di carriera un professionista vede costantemente diminuire il suo potere d’acquisto e non vede nessuna possibilità di carriera, ovviamente cerca soluzioni altrove.
In questo scenario, ci sono specificità che riguardano l’ortopedia?
L’ortopedia è in particolare sofferenza. Mentre è facile trovare chi fa chirurgia d’elezione, è molto complicato avere professionisti che operino nell’emergenza-urgenza. Ci sono pazienti che restano giorni in pronto soccorso e non dobbiamo far finta che la causa sia il medico che non lavora. Questo apre un altro capitolo: a mio parere l’etichetta di lavoro usurante potrebbe essere applicata senza bisogno di ulteriori dimostrazioni e ottenere tutti i benefici connessi rappresenterebbe un utile incentivo.
Ci sono molte strutture ortopediche, in Sicilia e non solo, fortemente carenti in termini di organico e i concorsi non risolvono la situazione. Abbiamo avuto concorsi per decine di assunzioni dove si sono presentati in pochi e addirittura in alcuni casi il bando è andato deserto; capita anche che coloro che si presentano al concorso e lo vincono, poi rinunciano. Viviamo una realtà sanitaria caratterizzata da una forte mobilità regionale, in cui sono sempre gli stessi medici che vanno da un ospedale all’altro per migliorare le condizioni economiche o la qualità professionale, mentre una vera immissione di giovani nel sistema sanitario ancora non c’è stata.
Un problema generale è quello delle liste d’attesa per gli interventi di elezione, che si erano allungate molto durante la pandemia. Ora le cose sono migliorate?
Per fortuna l’assessorato regionale ha capito quello che stava succedendo, ha recepito le indicazioni nazionali e ha erogato dei finanziamenti su tutte le strutture della Regione, proprio al fine di promuovere l’attività chirurgica in elezione. Questo ha aiutato moltissimo. Del resto, gli stessi soldi sarebbero stati altrimenti spesi in mobilità passiva. Certo, resta il problema che i medici non ci sono, l’emergenza-urgenza la si deve fare e il sistema è strozzato.
La chiusura dei piccoli ospedali non ha portato a un miglioramento dei bilanci sanitari delle Regioni?
Il tentativo di risparmiare chiudendo i piccoli ospedali funziona fino a un certo punto. È vero che ci sono delle realtà locali mantenute per volontà politica, perché sono un bacino di voti per il politico di turno, ma oggettivamente le chiusure non sempre si possono fare. La viabilità costituisce una limitazione importante e il diritto alla salute va mantenuto anche in zone disagiate, dove la rete viaria non è adeguata.
Renato Torlaschi
Giornalista Tabloid di Ortopedia