
Vincenzo Caiaffa
Per Otodi il problema delle liste d’attesa va affrontato nell’immediato con il finanziamento di prestazioni aggiuntive. Indispensabile poi ridurre la burocrazia, liberando tempo al medico, e definire meglio la formazione degli specializzandi
Il 19 e 20 maggio a Mestre (Venezia) è in programma la terza Convention programmatica Otodi. A presiedere i lavori di questa edizione sono Andrea Miti (Mestre), Silvio Demitri (Treviso) e Corrado D’Antimo (Belluno).
La Convention è un momento di incontro per la società scientifica per approfondire argomenti di tipo clinico (quest’anno si parlerà di innovazione in ortopedia e traumatologia dell’arto superiore e di innovazione nell’allestimento della sala operatoria: digitalizzazione, imaging, letti operatori), ma anche di tipo organizzativo e gestionale, sui quali abbiamo chiesto un confronto al presidente Otodi Vincenzo Caiaffa.
Dalla carenza di personale (non solo ortopedico) alle liste d’attesa, dalla formazione degli specializzandi fino alla burocrazia che sottrae troppe ore di lavoro ai chirurghi: sono queste le attuali criticità del Sistema sanitario nazionale.
Presidente, forse siamo davvero a fine pandemia e il problema delle liste d’attesa non è più rimandabile. Cosa propone Otodi?
È molto complesso uscire da questa situazione, con liste d’attesa ipertrofizzate rispetto alla norma. Siamo nel momento più critico, dove c’è stata una convergenza negativa legata da una parte all’emergenza pandemica, dall’altra alla carenza di ortopedici. Paghiamo la mancata programmazione degli ultimi 15 anni e nonostante nel 2022 siano stati raddoppiati i posti nelle scuole di specializzazione, i giovani colleghi non potranno essere inseriti nel contesto ospedaliero prima di 3 o 4 anni. Così non ci resta che aumentare il carico di lavoro in maniera notevole per sopperire alle richieste della popolazione.
Ma ci scontriamo anche con la carenza di anestesisti. Rispetto al passato insomma il problema si è nettamente spostato dall’insufficienza di posti letto a quella di personale.
Per quanto riguarda le soluzioni, riteniamo opportuno anzitutto individuare delle strutture ospedaliere dedicate per un certo periodo di tempo alla chirurgia d’elezione. Ci sono delle realtà in cui questo modello organizzativo ha già dimostrato di funzionare.
Inoltre si può pensare di ricorrere alle prestazioni aggiuntive, chiedendo agli operatori (chirurghi, anestesisti e infermieri) di andare oltre le 36 ore settimanali, fino al tetto di 48 ore indicato dalla legge europea 161/2014. Ovviamente questa operazione andrebbe finanziata, ma ci porterebbe a una soluzione netta del problema.
Per quanto riguarda gli spazi, quelli disponibili negli ospedali pubblici potrebbero essere integrati con altri messi a disposizione attraverso accordi con case di cura private.
Alla Convention Otodi si parlerà anche dei “teaching hospital”. Quali sono gli aspetti critici?
Abbiamo una normativa europea che indica cosa dovrebbero fare gli specializzandi, ma in Italia è stata recepita in maniera poco precisa. Così ci sono scuole di specializzazione con una rete formativa estremamente estesa e altre scuole con una rete molto ridotta. Ma soprattutto non c’è chiarezza e uniformità riguardo ai tempi e ai modi del percorso formativo.
La loro presenza in ospedale è regolata singolarmente da ogni scuola di specializzazione, creando così un’enorme eterogeneità sul territorio nazionale.
Come superare queste problematiche nell’ottica del completamento formativo pratico in ospedale?
I medici ospedalieri sono totalmente a disposizione dei colleghi universitari per trovare le giuste soluzioni. Negli ultimi dieci anni è stata finalmente superata la contrapposizione tra mondo universitario e ospedaliero e la criticità del momento attuale impone piena collaborazione e scelte condivise.
Per quanto riguarda la frequenza degli specializzandi in reparto, servirebbero indicazioni chiare e uniformi a livello nazionale su chi deve fare che cosa, quanto e per quanto tempo. Tutto questo al momento viene definito in modo autonomo e spesso eterogeneo tra ogni scuola di specializzazione e la propria rete formativa.
Sempre in ottica “teaching hospital”, quale interazione vede tra sanità pubblica e privata accreditata?
Come sono stati ampliati i posti nelle scuole di specialità, di conseguenza dovrebbero essere ampliate nei prossimi anni anche le reti formative. Sotto questo punto di vista sarebbe auspicabile allargare la rete trauma anche alle case di cura convenzionate: alcune di queste potrebbero infatti attivare un pronto soccorso e questo aiuterebbe notevolmente ad ampliare l’offerta traumatologica, che tra l’altro dopo il Covid soffre di parziali chiusure.
Andrea Peren
Giornalista Tabloid di Ortopedia
SONDAGGIO OTODI, ORTOPEDICI SCHIACCIATI DALLA BUROCRAZIA: «AL MEDICO OBBLIGO DI FIRMA MA NON DI COMPILAZIONE»_Sette ore al giorno per compilare moduli e firmare referti, un’ora e mezza per il verbale operatorio, un’ora per compilare le cartelle cliniche e solo 48 minuti per i pazienti: sono questi i risultati della ricerca “Tempo perso” realizzata da Otodi e Otodi Young, il primo sondaggio sul tempo dedicato al paziente e alla burocrazia da parte degli ortopedici.
Il sondaggio ha raccolto i dati di 82 unità ospedaliere di ortopedia e traumatologia italiane (il 20% delle 400 totali) distribuite in modo omogeneo sul territorio nazionale, focalizzando l’analisi su attività svolte in reparto, in sala operatoria e in ambulatorio o pronto soccorso.
I risultati dicono che un chirurgo ortopedico può trascorrere in reparto fino a quattro ore al giorno solo per la compilazione delle cartelle cliniche, o per completare le procedure finalizzate alla dimissione dei pazienti, o la compilazione dei moduli di richiesta di continuità assistenziale.
In sala operatoria non va meglio: il chirurgo può trascorrere oltre 100 minuti al giorno per la registrazione dei codici degli impianti, la compilazione del verbale operatorio o lo scarico dei mezzi di sintesi.
L’ortopedico in ambulatorio o in pronto soccorso, su una media di 30 prestazioni giornaliere, dedica fino a 410 minuti al giorno alla compilazione di moduli per presidi ortopedici, certificati di malattia o Inail oltre che alla programmazione di controlli, al collegamento dei database ai sistemi tessera sanitaria e alla firma dei referti con token.
«In una équipe di 10 chirurghi, delle 24 ore complessive, 11 ore sono dedicate a questioni burocratiche; ciò significa che due ortopedici al giorno non lavorano come medici chirurghi, bensì sono dediti ad attività burocratiche» riflette il presidente Otodi Vincenzo Caiaffa, secondo cui il lavoro burocratico sta aumentando a livelli insostenibili a discapito delle attività davvero importanti, quelle cliniche e quelle chirurgiche. Queste incombenze dovrebbero essere snellite dalla digitalizzazione, che risulta invece un ulteriore ostacolo all’attività dei medici: «il passaggio alla digitalizzazione, che è fondamentale per il nostro sistema sanitario, non si sta compiendo nel modo giusto – dice Caiaffa –. Abbiamo connessioni lente, banche dati che non parlano tra di loro. Tutto questo rallenta il nostro lavoro, anziché agevolarlo come dovrebbe essere l’obbiettivo della digitalizzazione». Una “lentezza digitale” equamente distribuita su tutto il territorio nazionale, a dimostrazione che l’inefficienza non è degli operatori, ma dei sistemi informatici.
Le soluzioni proposte da Otodi sono sia tecnologiche che normative: da una parte basterebbe che i sistemi e le piattaforme informatiche usassero lo stesso linguaggio e integrassero i dati tra di loro; dall’altra si potrebbe prevedere per il medico solo l’obbligo di firma e non anche di compilazione.