
Davide Maria Donati
SPECIALE ORTOPEDIA DIGITALE
Dalla didattica al planning preoperatorio, dalle guide chirurgiche al bioprinting, fino alla protesica 3D: l’ortopedia sta prendendo una chiara direzione digitale. Il chirurgo potrà lavorare meglio e con più precisione, ma dovrà sviluppare nuove competenze.
Da diversi anni l’Istituto Ortopedico Rizzoli di Bologna si pone come centro di avanguardia per la ricerca e la sperimentazione clinica nel settore delle applicazioni delle tecnologie di stampa 3D in ortopedia. Sono state intraprese esperienze cliniche, con pazienti già operati con successo, nell’ambito dell’ortopedia traumatologica e della patologia muscolo-scheletrica di natura oncologica e degenerativa. Si possono citare, in particolare, le ricostruzioni di bacino e ginocchio eseguite dall’équipe del professor Davide Maria Donati, le sostituzioni vertebrali effettuate dall’équipe del dottor Alessandro Gasbarrini e le ricostruzioni di gomito e spalla realizzate dell’équipe del dottor Roberto Rotini.
Altro ambito di ricerca prioritario è quello del bioprinting per la realizzazione di costrutti 3D integrati o interamente costituiti con materiali biomimetici o con componenti cellulari, che sta progredendo attraverso la recente acquisizione di una piattaforma dedicata e gli studi pre-clinici del Laboratorio Ramses per la medicina rigenerativa dell’apparato muscolo-scheletrico diretto dalla dottoressa Brunella Grigolo.
Dal Rizzoli, infine, è partita nel 2015 l’attività della Italian Digital Biomanufactoring Network (www.idbn.org), nata per collegare gli esperti italiani di stampa 3D e bioprinting, dotati di profili professionali diversi e provenienti dalle più svariate esperienze.
Dall’istituto bolognese ecco un resoconto dell’esperienza clinica per voce del professor Davide Maria Donati, direttore della Clinica ortopedica e traumatologica III a prevalente indirizzo oncologico e responsabile della Struttura semplice di patologia ortopedica e rigenerazione tissutale osteoarticolare.
Professor Donati, quali applicazioni biomediche della stampa 3D sono già implementate in ambito ortopedico e traumatologico?
Ad oggi, molto dell’applicazione in questo campo è costituito dalla stampa di riproduzioni tridimensionali che rappresentano la patologia ossea, sia essa frattura o altro tipo di deformazione, a partire dalle immagini TC, con funzione di modelli anatomici. In altre parole si tratta di rendere disponibili repliche delle parti ossee danneggiate, che possono servire a diversi scopi: coadiuvare la pianificazione dell’intervento chirurgico, fare dimostrazioni o esercitazioni didattiche per gli studenti, facilitare la comunicazione con il paziente riguardo al trattamento.
Esistono però altre due tipologie di utilizzo della stampa 3D inerenti la chirurgia ortopedica: la costruzione di segmenti ossei artificiali fatti su misura per la ricostruzione di parti dello scheletro, che potremmo chiamare protesica 3D, e la realizzazione di piccole componenti di tessuto formate in laboratorio per sostituzioni mirate a piccoli difetti tissutali, che viene oggi definita bioprinting.
La stampa 3D è potenzialmente impiegabile per numerose condizioni che comportano perdita di sostanza ossea e il cui trattamento ne contempli la sostituzione: fratture, infezioni, riassorbimento dovuto a fallimento di precedenti protesi, asportazione di tumori.
Quali sono le esperienze finora realizzate in chirurgia protesica? Con quali risultati?
Non esistono ancora vere e proprie casistiche, né lavori sperimentali in serie.
La letteratura internazionale riporta una decina di casi di protesi fatte su misura con stampa 3D in alcune particolari situazioni, prevalentemente dopo mobilizzazione protesica acetabolare. Si tratta di casi aneddotici, con follow-up molto limitati, che tuttavia suggeriscono quanto tale tecnologia offra l’opportunità di risolvere problemi complessi in modo semplice ed efficace.
Al Rizzoli abbiamo iniziato a utilizzare questa tecnologia per la ricostruzione di parti ossee in casi selezionati, soprattutto in ambito oncologico. In questo campo, infatti, esistono condizioni molto particolari in cui occorrono interventi personalizzati e in cui la protesica convenzionale non dà risposte soddisfacenti.
Per quali prerogative i dispositivi protesici 3D potrebbero rappresentare un avanzamento rispetto agli impianti convenzionali?
Oggi la protesica convenzionale riporta una percentuale variabile dal 2 al 5% di casi per i quali le caratteristiche del paziente, per esempio alterazioni particolari di asse meccanico o giovane età, richiederebbero un trattamento personalizzato. Inoltre, nell’ambito delle sostituzioni ossee, si sente ormai in molti settori l’esigenza di superare il ricorso all’osso di banca.
Questa metodica permette di implementare una medicina personalizzata, quindi più adeguata alle condizioni anatomiche reali del singolo soggetto. Con il 3D è possibile asportare il tessuto deteriorato in modo puntuale, attraverso guide di taglio fatte su misura, e poi sostituirlo con altrettanta precisione. Ciò permette il rispetto dell’anatomia osteoarticolare del paziente, il che, a sua volta, si riflette in una migliore ripresa funzionale e, in generale, in una resa migliore e una maggiore durata nel tempo dell’impianto.
Quali vantaggi e quali complessità comporta dal punto di vista della tecnica chirurgica il ricorso ai dispositivi 3D?
La forza del 3D è proprio nel permettere una semplificazione della tecnica chirurgica. In primo luogo perché, come già detto, con i modelli 3D si può realizzare una “stampa” della rappresentazione virtuale della malattia e della sua correzione. In secondo luogo perché ogni passaggio chirurgico può essere pianificato con grande precisione, evitando, per quanto possibile, la necessità di decisioni estemporanee durante l’intervento. Il fatto che la pianificazione dell’intervento, per quanto riguarda sia la resezione sia la ricostruzione delle parti ossee, debba essere fatta nei minimi dettagli preventivamente, consente oltretutto di ridurne sensibilmente i tempi di esecuzione, abbreviando la permanenza del paziente in sala operatoria e quindi anche la durata dell’anestesia. E questo è uno dei vantaggi più rilevanti dal punto di vista clinico e sanitario.
La complessità può risiedere nel rapporto tra il medico e l’ingegnere progettista, che devono cooperare integrando le rispettive competenze in modo da utilizzare al meglio gli strumenti messi a disposizione della tecnologia. In generale, la tecnologia della stampa 3D si muove con agilità e oggi non è certo il supporto tecnico che manca. Ciò che dobbiamo perfezionare è la componente concettuale, la progettazione, i criteri di accoppiamento dei materiali, lo studio delle forme tridimensionali, le modalità di fissaggio dei manufatti all’osso nativo.
Con le tecnologie bioprinting la stampa 3D potrebbe diventare la nuova frontiera della medicina rigenerativa, e con l’acquisizione di una piattaforma dedicata l’Istituto Rizzoli ne sta sperimentando le possibilità: a che punto è lo sviluppo di questo settore?
Il bioprinting concettualmente si muove nel contesto dell’ingegneria tessutale. L’idea è quella di costruire in laboratorio un tessuto che possa essere inserito al posto del tessuto danneggiato. Questo tessuto deve essere immediatamente funzionante dal giorno successivo all’impianto, sia sul piano delle prerogative meccaniche che su quello delle proprietà biologiche.
In questo approccio terapeutico vi sono ancora numerosi elementi sia teorici che pratici che devono essere approfonditi e aspetti critici che devono essere risolti perché possa diventare una realtà clinica: i principali sono la capacità meccanica del tessuto impiantato e la sopravvivenza delle cellule nel sito implantare. Questi sono i punti ai quali, con gli studi nel campo della medicina rigenerativa e con la piattaforma di bioprinting inaugurata lo scorso anno, l’Istituto sta dedicando molte energie e risorse, con l’obiettivo di far progredire la ricerca in questo settore e individuarne le possibili applicazioni.
Realisticamente, quali applicazioni del bioprinting si possono considerare concretizzabili nel futuro prossimo dell’ortopedia?
In tempi non troppo lunghi questa tecnologia potrebbe trovare applicazione nella sostituzione di piccoli difetti osteocartilaginei, prevalentemente di carattere traumatico, nel paziente giovane. In altre parole, senza dimenticare le problematiche legate alla regolamentazione della medicina rigenerativa, il bioprinting potrebbe rappresentare la continuazione delle tecniche di trapianto avviate già una ventina di anni fa nell’ortopedia dello sport.
Il vero aspetto limitante, in questo campo di applicazione, come in altri ipotizzabili, sarà il rapporto tra il costo degli impianti e la loro efficienza valutata nel tempo. Ad oggi molto di quanto fatto nell’ambito dell’ingegneria tessutale si è arenato proprio a partire da questo aspetto, in considerazione del fatto che se è necessario spendere due o tre volte tanto per una tecnologia innovativa, il Sistema sanitario nazionale ci potrà supportare solo qualora l’efficienza dell’impianto realizzato con tale tecnologia risulti molto superiore a quella degli impianti convenzionali.
Monica Oldani
Giornalista Tabloid di Ortopedia
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