
Carlo Dottino, laureato in ingegneria biomedica al Politecnico di Torino, forte di una variegata esperienza nel mercato internazionale dei dispositivi ortopedici ad alta tecnologia, dal 2009 è Marketing & Technology Manager di Adler Ortho
SPECIALE ORTOPEDIA DIGITALE
Le aziende protesiche stanno investendo per utilizzare le tecnologie e le modalità della fabbricazione additiva nella produzione in serie, uscendo dal custom. Come gli altri tipi di produzione, però, anche la fabbricazione additiva ha vantaggi e limiti
Con l’espressione “fabbricazione additiva” o, nella versione anglosassone, “additive manufacturing”, si indica un processo produttivo di oggetti tridimensionali che avviene per giustapposizione di strati successivi di materiale, a differenza di quanto si fa con le tradizionali tecniche cosiddette “sottrattive” oppure con la forgiatura o con la fusione.
La stampante 3D effettua il processo additivo a partire dalle istruzioni digitali create grazie a un software di modellazione Cad (Computer-Aided Design) e suddiviso in strati di spessore definito (a partire da 50 micron) da un software integrato nel sistema di controllo della macchina. Il file Cad, normalmente esportato in formato stereolitografico (Stl), contiene i dati che guidano la stampante nella deposizione del materiale.
L’additive manufacturing è nata per la fabbricazione rapida di prototipi e in campo biomedico è stata finora adottata per la realizzazione di dispositivi patient-specific, rimanendo quindi legata a un settore produttivo di nicchia. Ma la previsione sul suo futuro a breve e medio termine sembrerebbe essere quella di una crescente diffusione e possibilmente di un allargamento degli ambiti di applicazione, complice anche la progressiva riduzione dei costi di acquisto delle stampanti 3D e dei costi di produzione.
A fare il punto delle prospettive della produzione 3D per l’ortopedia è l’ingegner Carlo Dottino, Marketing & Technology Manager di Adler Ortho, azienda italiana tra le prime a livello mondiale a impiegare la fabbricazione additiva per la produzione di strumenti chirurgici, impianti custom-made e anche componenti protesiche non cementate di serie in titanio, leghe cromo-cobalto e acciaio inossidabile.
Ingegner Dottino, quale futuro intravede per l’additive manufacturing nel mercato dei dispositivi ortopedici?
In effetti, se l’avventura è iniziata con la produzione su commissione, custom-made, che è quella che tuttora affascina maggiormente per le prospettive di una personalizzazione sempre più spinta dei trattamenti e per quelle di uno sviluppo congiunto a quello della medicina rigenerativa, oggi la tendenza delle aziende è di investire nell’applicazione di questa tecnologia per una produzione di massa, perché il custom è un mercato molto suggestivo ma, al momento, limitato. Ormai da alcuni anni ci si sta cimentando, per esempio, con le gabbiette per la fusione intersomatica vertebrale, con le protesi primarie e con gli impianti per le piccole articolazioni della mano e del piede.
Naturalmente, il custom non solo è stato un’ottima palestra per l’additive manufacturing, ma rimane di prima scelta quando si debbano effettuare interventi complessi in patologie con perdita ossea: per esempio nelle revisioni protesiche su infezione, nelle revisioni ripetute, nelle ricostruzioni oncologiche o traumatologiche, nella correzione di deformità congenite. E lo è, tra l’altro, perché in questi casi la stampa 3D esonera dal ricorso all’osso di banca, che ha una durata limitata, mentre un impianto custom può garantire una permanenza sicuramente superiore.
Quali prerogative dell’additive manufacturing dal punto di vista delle prestazioni la rendono attraente per la produzione in serie?
La tecnica additiva è diventata interessante non tanto perché permette un’assoluta libertà della forma, cosa che, tutto sommato, può essere ottenuta anche con i sistemi convenzionali, quanto perché consente di realizzare strutture tridimensionali monoblocco, non composite, e quindi dotate mediamente di notevole resistenza meccanica.
In un’unica componente protesica stampata in 3D si possono avere zone piene, a massima resistenza, zone con pori di qualche centinaio di micron, in conformità con il tessuto osseo, ma anche zone a porosità più alta laddove, per esempio, si vuole che l’impianto sia semplicemente uno scaffold, destinato a ricevere osso di banca oppure osso autologo. Con i sistemi convenzionali ciò è ottenibile soltanto con una produzione modulare, cioè realizzando l’impianto attraverso la combinazione di pezzi diversi, fatto che rende il dispositivo più vulnerabile. Inoltre, è solo con la fabbricazione additiva che si possono ottenere certi tipi di strutture tridimensionali; strutture che solo 20-30 anni fa un ingegnere meccanico avrebbe definito fantascientifiche.
Un altro vantaggio, che abbiamo riscontrato già nei primi esperimenti fatti nel 2006, è la possibilità di dotare le componenti protesiche di superfici molto rugose, e pertanto dotate di una notevole stabilità primaria, fondamentale ai fini dell’osteointegrazione. Per ottenere una rugosità sufficiente con le tecniche tradizionali è necessario aggiungere del materiale. E ormai sappiamo che quel qualcosa che viene aggiunto poi può anche staccarsi. Con la tecnologia additiva l’impianto è anche in questo senso un pezzo unico, teoricamente più stabile.
Quali sono invece i vantaggi sul piano della lavorazione?
Con la tecnica additiva possiamo controllare in maniera estremamente accurata, attraverso i software, tutti i parametri del processo. Mentre prima sulla base del modello Cad occorreva attrezzare la macchina, cioè costruire l’utensile adatto alla realizzazione del’oggetto modellizzato, adesso sono il raggio elettronico o il raggio laser che disegnano il modello sugli strati di polvere metallica deposti in successione, fondendoli via via. Quindi, dal punto di vista della produzione, si ha un’assoluta flessibilità, che consente di passare da un impianto a uno completamente diverso senza dover intervenire sulla macchina.
Che cosa caratterizza la produzione custom in 3D?
Nella produzione custom il grosso del lavoro è del progettista, che deve decidere come impiegare in combinazione le varie tecnologie 3D per ottenere il risultato richiesto dal committente.
Un altro grande cambiamento è avvenuto a livello dei tempi di realizzazione, che con la stampa 3D sono, anche per un dispositivo su misura, estremamente contenuti. Il chirurgo può farsi stampare un prototipo, anche in plastica, del segmento osseo da modificare o ricostruire, decidere come intervenire ed eventualmente richiedere impianti di prova intermedi prima di arrivare a quello finale; i tempi di realizzazione per ciascuno step sono abbastanza rapidi da essere compatibili con i consueti tempi di programmazione dell’intervento. Considerando che ogni modello può richiedere 3-4 settimane, in una finestra di 6-8 settimane si ha il tempo per fabbricare l’impianto definitivo.
La produzione in serie con queste tecnologie potrebbe portare all’accantonamento delle tecniche tradizionali?
Nel sistema di produzione tradizionale spesso si utilizzano le varie tecniche (forgiatura, fusione, asportazione di truciolo, ecc.) non solo con obiettivi diversi ma anche in combinazione, perché ognuna presenta qualche limite. Sotto questo aspetto, per ora le tecnologie di fabbricazione additiva non fanno eccezione: non portano esattamente alla produzione di un impianto finito, perché vi sono parti che devono essere fatte separatamente o perfezionate con le tecniche tradizionali, come ad esempio il sistema di bloccaggio dell’inserto di un cotile. Sicuramente l’80-90% della lavorazione si esaurisce con la tecnica additiva, ma per le finiture possono essere necessari trattamenti con le altre tecniche.
Infine, la stampa 3D ha dei limiti rispetto ad alcune caratteristiche fisiche del prodotto. Per certi impianti, infatti, occorre tuttora ricorrere al metallo forgiato, che ha una resistenza meccanica superiore: per esempio, la fabbricazione additiva è adatta per i cotili delle protesi di anca, ma per lo stelo femorale, lungo e sottile, solo la forgiatura dà le necessarie garanzie di robustezza.
Quali sono gli altri aspetti ancora critici?

Protesi totale d’anca mininvasiva interamente prodotta con tecnica additiva
Un aspetto critico relativo è rappresentato dal fatto che il periodo di osservazione per gli impianti protesici 3D è ancora troppo breve per fare considerazioni definitive: abbiamo mediamente follow-up di una decina d’anni rispetto agli oltre quaranta degli impianti tradizionali. Bisogna dire che a partire dalle prime esperienze si incominciano a vedere risultati molto incoraggianti.
Un limite, invece, legato all’evoluzione tecnologica, sebbene avanzi a passi da gigante, è che per ora si lavora in uno spazio limitato (di 9.000-10.000 cm3) e quindi i volumi di produzione permessi da ogni singola macchina sono anch’essi limitati: volendo produrre 100.000 pezzi all’anno oggi bisogna ricorrere alla tecnologia standard e perciò una grossa azienda non può ancora pensare di usare la tecnologia additiva per gli impianti primari, può solo riservarla ad articoli che hanno volumi di produzione più bassi come, per esempio, le protesi da revisione.
Quali sviluppi ci saranno nel campo dei materiali e delle apparecchiature?
Per quanto riguarda i materiali, si può dire che se i metalli sono sempre quelli, la tecnologia delle stampanti sta evolvendo molto e si sta lavorando per aumentarne velocità e output e per migliorare la resistenza meccanica dei prodotti metallici in modo che siano più performanti.
Inoltre, c’è un certo fermento nel settore dei polimeri, dei gel, delle nanoparticelle, dei materiali con caratteristiche biomimetiche o stimolanti la rigenerazione tissutale. Nel novero dei polimeri, per esempio, si sta cercando di creare un materiale plastico che riassorbendosi si trasformi in tessuto osseo, di ottenere lavorando a livello microscopico superfici che impediscano l’adesione di batteri, di riempire il materiale inerte con sostanze farmacologiche o con componenti biologiche che procedano alla rigenerazione.
Infine, poiché teoricamente tutto è stampabile, si sta esplorando la possibilità di farlo direttamente con materiale biologico, anche se quello del bioprinting è un settore ancora a un livello di sviluppo pionieristico e che, oltretutto, porta con sé inevitabilmente serie implicazioni etiche e normative.
Monica Oldani
Giornalista Tabloid di Ortopedia
ELETTRONICO O LASER: RAGGI A CONFRONTO
I due sistemi produttivi attualmente utilizzati nell’ambito dell’additive manufacturing per realizzare la fusione degli strati sovrapposti di polveri metalliche sono la fusione a fascio di elettroni, meglio nota con l’acronimo del nome anglosassone EBM (Electron Beam Melting) e la sinterizzazione laser selettiva, anch’essa citata come SLS (Selective Laser Sintering).
Electron Beam Melting è un sistema sviluppato circa quindici anni fa da un’azienda svedese, che utilizza un raggio elettronico per fondere la polvere metallica. Lavora ad almeno 700° C (che è la temperatura di fusione del titanio), in modo che il raggio elettronico, di per sé non potentissimo, riesca, aggiungendo un basso quantitativo di energia, a “disegnare” e fondere gli strati di polvere, e lavora in assenza di aria, potendo così operare su materiali che altrimenti reagirebbero immediatamente con l’ossigeno esplodendo, prendendo fuoco o producendo composti indesiderati. Per questo motivo viene usato normalmente per realizzare prodotti in titanio.
Selective Laser Sintering è un sistema made in Usa, ideato presso l’Università del Texas di Austin a metà degli anni Ottanta (ma entrato in uso per la produzione 3D più recentemente di EBM), che utilizza un raggio laser. Essendo quest’ultimo molto più potente del fascio elettronico, può operare a temperatura ambiente e portare le polveri alla temperatura necessaria per la fusione, raggiungendo anche 2.000° C a seconda del materiale utilizzato. Viene impiegato quando si deve lavorare con metalli diversi dal titanio, con l’acciaio inossidabile oppure con le leghe cromo-cobalto, che hanno temperature di fusione molto alte.
La lavorazione EBM è più veloce, mentre il processo SLS è più lento, ma può garantire una precisione più elevata, particolarmente adatta alla finitura superficiale.
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