
Francesco Verde
Per Francesco Verde la protesica del ginocchio può e deve essere personalizzata sul paziente, sfruttando le potenzialità delle protesi compartimentali. «Alle nuove generazioni di chirurghi il compito di mettere in atto una chirurgia più evoluta»
Ad oggi nell’immaginario collettivo il trattamento chirurgico dell’artrosi di ginocchio consiste sostanzialmente nell’impianto di una protesi totale di ginocchio. Tale visione è in realtà fuorviante, perché sostanzialmente non corretta.
Come noto oggi esistono diversi tipi di impianti che vanno dalla protesi monocompartimentale alle protesi combinate (mono più femoro-rotulea), passando attraverso le protesi bimonocompartimentali fino ad arrivare alle protesi totali di ginocchio. Di queste ultime, poi, ne esistono di diversi tipi in funzione del design, del grado d’invasività e di vincolo e con una base biomeccanica diversa.
La scelta del tipo di impianto da utilizzare deve passare da una valutazione qualitativa e quantitativa del ginocchio da parte del chirurgo, che dovrà compiere una scelta mirata dell’impianto in funzione del tipo di artrosi e delle aspettative funzionali del singolo paziente.
In linea di principio, quindi, la scelta del tipo di impianto dovrebbe essere fondata su una conoscenza di tutti gli impianti disponibili, dalla mono alla totale, comprese le implicazioni biomeccaniche ampiamente dimostrate in letteratura. Alle nuove generazioni di chirurghi va quindi il compito di allargare i propri orizzonti culturali, per mettere in atto una chirurgia via via più evoluta.
La protesi nasce compartimentale
A guardar bene, la chirurgia protesica di ginocchio mosse i suoi primi passi negli anni ’50 con degli impianti compartimentali. Il principio su cui si basavano era poco più che intuitivo e si fondava sul ricostruire anatomicamente l’articolazione. A quel tempo però la scarsa qualità dei materiali e dei design degli impianti protesici, la quasi totale assenza di valutazione critica sulle indicazioni, oltre alla mancanza pressochè completa di strumentari e di conoscenze in merito alla tecnica chirurgica causarono un enorme numero di fallimenti, talvolta disastrosi.
Negli anni ’70 i buoni risultati dei primi impianti di protesi totale a sacrificio del crociato posteriore spinsero i più ad abbandonare la sfida di una ricostruzione anatomica e fisiologica dell’articolazione a favore di una soluzione più sicura sul piano dei risultati. Da allora, per oltre trent’anni, la chirurgia compartimentale è rimasta appannaggio limitato di convinti sostenitori del principio che considera il ripristino dell’anatomia del ginocchio il fondamento di una chirurgia evoluta, basata sulla ricostruzione della biomeccanica articolare e quindi sul tentativo di preservare, dove possibile, il legamento crociato: è il principio non scritto su cui si basa la chirurgia compartimentale e mininvasiva.
Il ricorso alle protesi totali a sacrificio del crociato ha prodotto sul piano culturale due immediate conseguenze: ha allontanato gli stessi chirurghi e soprattutto i pazienti dalla chirurgia protesica e ha diffuso un senso comune d’inadeguatezza della chirurgia compartimentale rispetto alla protesi totale. Nell’immaginario collettivo è rimasta, perciò, l’idea di una chirurgia da praticarsi il più tardi possibile e solo in condizioni disastrose. D’altro canto, lo spettro di dover eseguire una revisione nel corso della propria vita era tutt’altro che incoraggiante. Oggi però il miglioramento dei materiali e del design degli impianti protesici, oltre alla diffusione su larga scala dei risultati delle casistiche di impianti sia mono che totali, ha portato a una nuova valutazione complessiva dell’orizzonte protesico.

Immagini intraoperatorie di un impianto bimonocompartimentale (a sinistra) e due impianti
bicompartimentali (al centro e a destra)
La valutazione qualitativa dei risultati
Nel corso della storia di questa chirurgia, si sono succeduti lavori scientifici che hanno mostrato risultati del tutto contrastanti a favore e contro le protesi monocompartimentali. Per questa ragione nel ventennio che va dagli anni ’90 al 2010, le indicazioni per un impianto di protesi monocompartimentale sono rimaste rinchiuse in un ambito ristretto di casi tra l’osteotomia e la protesi totale. Nei primi anni 2000 però gli ottimi risultati di sopravvivenza a lungo termine delle protesi monocompartimentali impiantate nei centri di maggiore expertise hanno acceso una nuova luce sul loro impiego.
D’altra parte l’analisi qualitativa, e non più solo quantitativa, dei risultati delle protesi totali di ginocchio, ha fatto emergere un gap di soddisfazione da parte dei pazienti che ha portato a una nuova valutazione complessiva delle indicazioni chirurgiche. In effetti, per molti anni si è usato il metodo di Kaplan Meyer, che per la valutazione statistica dei risultati si fonda su un unico criterio: la revisione come indice di fallimento. Un dato che offre una visione non qualitativa del funzionamento dei singoli impianti all’interno della casistica: in questo modo sappiamo quante protesi sono fallite, e pertanto quanti pazienti sono stati sottoposti a intervento di revisione, ma non sappiamo nulla su come stanno effettivamente tutti gli altri pazienti, non revisionati.
Si è passati così a una nuova valutazione critica dei risultati delle protesi utilizzando dati riferiti dagli stessi pazienti attraverso questionari come Proms (patient reported outcome measures) e Prems (patient reported experience measures). L’attenzione in questo modo si è spostata o, per meglio dire, è tornata, sui pazienti e non più sulle protesi in quanto tali. Ciò che è emerso è che, se da una parte è vero che le protesi totali di ginocchio sono soggette a un minor numero di revisioni per fallimento rispetto alle mono, manifestano un tasso di insoddisfazione più alto da parte dei pazienti, che varia a seconda delle casistiche tra il 10 e il 30%. In altre parole, vi è un’ampia quota di protesi totali valutate con la Kaplan Meyer che non sono state revisionate, e perciò non ritenute un fallimento, ma che in realtà non funzionano in maniera soddisfacente. Cosa che, da un punto di vista qualitativo, corrisponde proprio a un fallimento. Il perché questi impianti non vengano revisionati apre uno scenario ben più complesso, che coinvolge anche la mentalità dei chirurghi, molto più orientati a revisionare precocemente un impianto monocompartimentale rispetto a una protesi totale.
Tale modello di valutazione dei risultati, d’altro canto, è semplicistico se non prende in considerazione anche l’elemento umano: l’expertise chirurgica dell’operatore. Per capire quanto conta questo fattore, basta confrontare i risultati di sopravvivenza a lungo termine delle protesi di ginocchio, sia mono che totali, degli studi pubblicati in letteratura con i dati dei registri nazionali, che offrono uno spaccato molto più vicino alla realtà dello stato dell’arte di una chirurgia all’interno di un sistema sanitario nazionale. La maggior parte degli impianti è effettuato in un alto numero di centri, sparsi su tutto il territorio nazionale, che effettuano meno di 50 impianti all’anno: questa bassa expertise si traduce in tassi di fallimento ben più elevati rispetto a quelli pubblicati in letteratura, con casi trattati da chirurghi esperti in centri con alti volumi di impianti per anno.
La nuova chirurgia protesica
Il problema dell’insoddisfazione del paziente protesico è legato soprattutto al dolore, che spesso si protrae dopo l’intervento per mesi e, in alcuni casi, con un’intensità variabile, può assumere carattere cronico. Il dato di insoddisfazione dei pazienti portatori di protesi totali ha aperto così una nuova luce sui principi biomeccanici della tecnica chirurgica di impianto e sul design protesico.
La discussione sulla validità di un criterio di scelta di allineamento della protesi, meccanico o anatomico o cinematico o costituzionale, è ancora aperta. Così come è ancora aperta la discussione sul principio di scelta di un impianto a conservazione o a sacrificio del legamento crociato posteriore e, soprattutto, su come detti fattori possano condizionare l’outcome dei pazienti. Attualmente la comunità chirurgica è divisa pressochè equamente tra i sostenitori degli impianti a conservazione del legamento crociato posteriore e a sacrificio dello stesso. Le motivazioni alla base di questa scelta sono, dopotutto, ancora poco chiare, e costituiscono, ad oggi, uno dei focus principali di tutti i congressi scientifici.
Nel frattempo, anche i chirurghi più tradizionalmente restii ad accettare la validità della chirurgia protesica compartimentale hanno iniziato a farne uso. Il risultato è che chirurghi più tradizionali, con percentuali di impianto del 100% di protesi totali di ginocchio a sacrificio di entrambi i crociati, hanno ammesso ad oggi un 30% di impianti compartimentali. Tale dato è un’accettazione indiretta della validità dei risultati della chirurgia compartimentale emersi dalla letteratura, anche se il numero di impianti monocompartimentali di ginocchio rimane ancora largamente al di sotto delle reali indicazioni: nel mondo la chirurgia compartimentale rappresenta solo il 5% del totale; in Italia (dati Riap, Registro italiano artroprotesi) nel 2016 le protesi totali di ginocchio erano l’85%, mentre le mono solo il 15% del totale.
Il trattamento protesico personalizzato
Come noto il tipo di degenerazione artrosica del ginocchio è dipendente dal morfotipo dell’articolazione, che rappresenta la base meccanica su cui si inscrivono le variabili secondarie indipendenti che possono condizionare l’evoluzione artrosica nel tempo. È evidente che la sollecitazione meccanica sul compartimento interno o esterno condiziona la sede d’inizio della degenerazione artrosica, per questo nel varo ci potrà essere più probabilmente un’indicazione, nelle fasi precoci dell’artrosi, a una mono mediale, e nel valgo a una mono laterale. Sempre per lo stesso principio, in caso di localizzazione anteriore alla femoro-rotulea, l’indicazione sarà più probabilmente per una protesi femoro-rotulea isolata.
In qualche caso la patologia può interessare ben due compartimenti su tre del ginocchio contemporaneamente. Le possibili combinazioni in questo caso sarebbero: compartimento mediale e laterale, ad esempio in un ginocchio ad asse neutro, o compartimento mediale e femoro-rotuleo, infine compartimento laterale e femoro-rotuleo. In queste evenienze l’indicazione sarà per una protesi bimono, nel primo caso; mono mediale + femoro-rotulea nel secondo caso e mono laterale + femoro rotulea nel terzo caso. Questi impianti vengono identificati come protesi bimonocompartimentali nel primo caso e bicompartimentali nei rimanenti (fig. 1). Solo in casi selezionati è possibile arrivare anche a una protesi tricompartimentale, come risultato di una revisione di una protesi bimonocompartimentale o di una bicompartimentale, per usura del terzo compartimento non protesizzato.
Tutte queste combinazioni arricchiscono enormemente lo spettro dei possibili trattamenti prima di considerare un impianto di protesi totale a conservazione di entrambi i legamenti crociati. Combinazioni che possono effettivamente essere personalizzate in funzione del quadro clinico del paziente.
L’indicazione a una protesi monocompartimentale nasce, di logica, prima in ordine di tempo di quella di una protesi totale. Con il degenerare della patologia artrosica, anche gli altri compartimenti del ginocchio verranno interessati, portando alla corretta indicazione di una protesi totale. Quest’ultima dovrebbe trovare spazio in quei casi che non hanno goduto delle soluzioni precedenti al momento giusto, o laddove la patologia ha coinvolto da subito tutti i compartimenti. Tale eventualità, se non è il risultato di una scelta filosofica che nega alla chirurgia compartimentale una sua validità, trova solo due possibili giustificazioni: o i pazienti non hanno manifestato disturbi alle ginocchia tali da indurli a una visita ortopedica precoce, oppure i chirurghi che li avevano in cura hanno optato per una visione più tradizionale e attendista sull’artrosi, negando anche la semplice informazione relativa alle opzioni chirurgiche precoci e meno invasive.
Francesco Verde
Primario di Chirurgia protesica mininvasiva e Robotica di anca e ginocchio
Irccs Ospedale San Raffaele di Milano