
Vito Amorese
Intervista a Vito Amorese, presidente del 100° Congresso Siot (Roma, 7-10 novembre 2015)
Professor Amorese, chi sono i pazienti a elevata richiesta funzionale, i giovani che vogliono riprendere la vita precedente a un evento traumatico o anche i “nuovi anziani”?
Quando si parla di protesi ad alta richiesta funzionale si pensa subito a soggetti giovani che hanno una particolare patologia articolare o che hanno subito un grave trauma destruente a carico di un’articolazione. Tale interpretazione, sebbene esatta, non prende in considerazione un’altra fascia di età: quella degli over cinquanta, sessanta e talvolta settant’anni. L’allungamento dell’età media, la sempre maggiore cura che oggi i soggetti hanno della propria salute, il miglioramento della medicina generale e il diffondersi delle pratiche sportive, hanno fatto sì che insieme all’età si sia allungata anche la possibilità e la volontà di praticare sport anche quando si è anziani.
La chirurgia si è dunque adeguata per affrontare le richieste di questi pazienti?
Si è affermata la necessità di avere protesi articolari che siano non solo efficaci dal punto di vista funzionale ma anche durature nel tempo. In passato le protesi erano considerate da chirurghi e pazienti una sorta di “ultima spiaggia” da affrontare quando l’alternativa poteva essere solo la perdita totale della mobilità. Oggi gli interventi di sostituzione protesica articolare hanno cambiato la vita dei nostri pazienti e nel corso degli anni hanno modificato l’approccio dei chirurghi ortopedici nei confronti della patologia osteoarticolare. Non a caso nel 2007 l’artroprotesi d’anca veniva definita in un ormai celebre editoriale pubblicato sull’autorevole rivista The Lancet come l’operazione del secolo. L’evoluzione delle tecniche chirurgiche e anestesiologiche, i progressi nel campo dei biomateriali e delle tecniche d’impianto, la sempre maggiore affidabilità delle metodiche anestesiologiche e gli elevati standard raggiunti dai protocolli riabilitativi hanno determinato un progressivo miglioramento dei risultati a medio e lungo termine delle protesi articolari. Questi successi hanno contribuito ad accrescere la fiducia dei chirurghi ortopedici circa la possibilità di ottenere, nella stragrande maggioranza dei casi, risultati ottimi o eccellenti e di conseguenza è stato sempre più facile proporre al paziente un intervento che, seppure tuttora complesso e impegnativo, risulta in definitiva capace di offrire con ragionevole certezza un significativo beneficio funzionale, non solo in termini strettamente motori, ma in definitiva sulla qualità di vita del singolo paziente nel suo complesso.
Il riscontro di questi risultati favorevoli, accanto alla sempre maggiore consapevolezza e diffusione delle procedure (mediche, chirurgiche e riabilitative) necessarie ad ottenerli, hanno spinto i chirurghi ortopedici ad allargare le indicazioni verso fasce di età una volta considerate a rischio per motivazioni diverse.
In conclusione oggi il candidato ad una protesi articolare ad alta funzionalità non viene più valutato in base all’età anagrafica ma piuttosto rispetto al livello di attività.
Quindi si fanno più protesi rispetto al passato?
Lo studio epidemiologico condotto dall’Istituto superiore di sanità che viene presentato al congresso Siot dal gruppo guidato dall’ingegner Marina Torre conferma la tendenza all’aumento globale nel numero di protesi articolari impiantate in Italia.
Dal 2001 al 2013 le artroprotesi d’anca in Italia sono aumentate del 141%, quelle di ginocchio del 226%. Il dato sembra confermato anche nei pazienti più giovani, sia quando venga utilizzata la classe di età al di sotto dei 65 anni, ma anche se si prende in considerazione un criterio più restrittivo, cioè i soggetti al di sotto dei 55 anni. I tassi di incidenza sono aumentati sia per le protesi d’anca che per quelle di ginocchio, sia per gli uomini che per le donne. Il maggiore incremento nel tasso di incidenza si è registrato per le artroprotesi d’anca negli uomini (+58%) e per la classe dei pazienti con meno di 45 anni (+55%). Per quanto riguarda le artroprotesi di ginocchio il tasso di incidenza è pressoché raddoppiato nelle donne e quasi triplicato negli uomini; la classe di età in cui si e registrato il maggior aumento del tasso di incidenza è stata la classe dei pazienti di età inferiore a 45 anni.
I sempre maggiori successi di questi interventi comportano anche nuove problematiche?
In un cotesto socio-economico in cui la sostenibilità dei sistemi sanitari è in discussione, l’allargamento delle indicazioni a una quota sempre maggiore di pazienti pone responsabilità sempre maggiori sulle spalle dei chirurghi ortopedici. La valutazione costo-efficacia di queste scelte potrà influire sul futuro di questi interventi e, in quest’ottica, le informazioni attendibili sui risultati a lungo termine acquisiscono un’importanza enorme.
Infine l’aumento della protesizzazione di pazienti più giovani comporta un potenziale progressivo incremento delle revisioni e in quanto tale può porre le generazioni future di ortopedici di fronte a problemi di difficile soluzione. Questo carico di lavoro per gli ortopedici è sostenibile nel momento in cui le prospettive attuali depongono per drastici tagli in termini di disponibilità di materiali e forza lavoro?
Quali tecniche chirurgiche consentono più di altre il recupero di funzionalità elevate?
C’è un vecchio detto: tutte le strade portano a Roma. A mio parere non esiste una tecnica chirurgica migliore di un’altra. L’importante è essere padroni della propria tecnica che percentualmente ci ha dato un buon risultato.
Si può discutere per esempio se la via posteriore con la disinserzione degli extrarotatori possa favorire una lussazione posteriore dell’anca rispetto a quella laterale o anteriore. Oppure si può discutere se quella anteriore con la mini incisione possa consentire una più rapida riabilitazione del paziente a scapito di maggiori difficoltà nella corretta esecuzione dell’impianto. Ma, ripeto, sono piccoli problemi se confrontati a quelli relativi alla tribologia: è migliore l’accoppiamento ceramica-ceramica? Oppure la ceramica con il polietilene? E quale polietilene? E cosa dire del metallo-metallo? È vero che questo accoppiamento di per sé provoca danni oppure, come alcuni sostengono, è stata tutta colpa dell’incastro sbagliato tra testa e cono-morse? Per quanto poi concerne la protesica del ginocchio, è meglio intervenire con l’ausilio della navigazione? È meglio usare le maschere custom-made? Sono tutti argomenti di discussione per i relatori di questa edizione del congresso.
Un altro argomento importante che abbiamo deciso di affrontare riguarda la metodica di fissazione: cementazione versus ancoraggio biologico. Nei Paesi anglosassoni la cementazione nelle protesi d’anca la fa da padrona anche nei primi impianti del giovane, al contrario di quanto accade in Italia. E il problema non è di poca importanza se affrontiamo il problema di costo-efficacia: le protesi cementate costano molto meno di quelle non cementate. Ma è vero che l’efficacia nel tempo è la stessa come affermano i sostenitori della cementazione?
Nello scenario attuale, quali restano le controindicazioni, gli inconvenienti e i rischi degli interventi di protesizzazione?
In passato una delle maggiori controindicazioni era la paralisi di uno o più muscoli attivatori dell’anca da protesizzare per il pericolo di instabilità e lussazioni; oppure nelle gravi spasticità con lussazione di anca laddove esisteva un maggiore pericolo per l’esagerato tono muscolare o per l’errata distribuzione delle forze di carico. Oggi con le nuove protesi (come le constrained) e il miglioramento degli accoppiamenti siamo in grado di curare molti di questi pazienti che altrimenti vivrebbero una vita dolorosa e di segregazione. Lo stesso vale per le protesi di ginocchio. Attualmente le industrie ci mettono a disposizione protesi che possono risultare efficaci anche in presenza di grosse perdite di sostanza ossea, sia femorale che tibiale, come nel caso di tumori o in esito a gravi traumi. Quando alcuni decenni fa ho abbracciato l’ortopedia, l’alternativa era l’amputazione o la disarticolazione.
In relazione agli inconvenienti non si può dire che non esistano: ogni pratica chirurgica presenta le sue possibili complicanze.
La chirurgia protesica è una chirurgia in cui è necessaria, oltre alla preparazione, una sensibilità manuale: fortunatamente sono eventi rari ma tra gli inconvenienti esistono le fratture iatrogene nelle ricerca di un esagerato press-fit. Oppure l’affondamento o la mobilizzazione del cotile se il press-fit è modesto. O ancora peggio l’esagerato accorciamento o allungamento dell’arto operato.
Purtroppo i rischi e i potenziali problemi sono tanti ed ecco perché, oltre a una buona esperienza, bisogna sempre fare un accurato piano pre-operatorio che ci permetta di scegliere la protesi della giusta dimensione, calcolare il giusto off-set e quant’altro.
Infine tra i rischi, a parte le lussazioni e le complicanze tromboemboliche, non può essere dimenticato quello più temibile per i chirurghi ortopedici: l’infezione. Questa è una grave evenienza che costringe il paziente a subire più interventi e non sempre risolutivi. È importante quindi attenersi scrupolosamente ai protocolli relativi alla somministrazione degli antibiotici, alla sterilità delle sale operatorie e al corretto comportamento del personale che opera nel blocco operatorio.
Renato Torlaschi
Giornalista Tabloid di Ortopedia