
Carlo Grandis
«C’è stata una progressiva involuzione» fa notare Carlo Grandis, che ci ha fatto il quadro di una chirurgia in crisi su protesi e risultati anche a causa della «memoria corta» dei ricercatori. E i Drg, come al solito, complicano tutto
La chirurgia protesica della mano è particolarmente difficile perché richiede di operare in distretti molto piccoli in cui bisogna risparmiare le strutture nobili con estrema attenzione; la mano è ricca di terminazioni nervose vascolari e il chirurgo deve avere conoscenze anatomiche molto precise.
«Pur trovando indicazione per molte condizioni patologiche, dal punto di vista delle tecniche chirurgiche, la protesica della mano non ha fatto segnare alcun progresso recente tranne che per alcune ossa del carpo; per il resto, nel tentativo di migliorare le cose c’è stata una progressiva involuzione». A sostenerlo è Carlo Grandis, responsabile chirurgia della mano I dell’Irccs Istituto ortopedico Galeazzi di Milano (Gruppo ospedaliero San Donato), che ci ha parlato anche di altre difficoltà, non strettamente chirurgiche ma legate alla burocrazia o all’organizzazione sanitaria.
Dottor Grandis, quando è nata e come si è sviluppata la chrirurgia protesica della mano?
Le protesi sono comparse nello scenario mondiale alla fine degli anni Sessanta mediate in alcuni casi da esperienze belliche, come è successo per molte apparecchiature sanitarie di tipo ortopedico. Un precursore è stato Alfred Swanson di Grand Rapids, nel Michigan, che ha ideato una serie di protesi per il polso, il carpo e le dita utilizzando un derivato del silicone che è il Silastic, un prodotto talmente valido da essere usato ancora oggi. La sua struttura è monoblocco e non comporta l’utilizzo di materiali ferrosi, molto mal sopportati dalla mano, o cemento acrilico. Io la utilizzo regolarmente e molti colleghi che avevano percorso altre strade adesso stanno ritornando su quella protesi.
Negli anni sono comparsi – e stanno ricomparendo oggi – protesi con materiali differenti (metallo-plastiche, completamente in metallo, in ceramica) con risultati alterni e spesso poco soddisfacenti a lungo termine. Alla base di questo c’è anche una mancanza di informazione sullo storico, sul vissuto. Io continuo a ricevere giovani rappresentanti che mi presentano un «nuovo modello di protesi» e io gli mostro lo stesso modello con minime variazioni che era comparso negli anni Settanta e poi era stato abbandonato. L’errore di certe ditte che si occupano di protesi della mano è di ripercorrere strade già abbandonate da altri solo perché non si informano del pregresso.
Queste storture sono dovute al fatto che è una chirurgia poco praticata?
Sono dovute al fatto che è una chirurgia poco remunerativa. Io ho tentato, dopo 35 anni di esperienze con le protesi Silastic, di proporre piccole modifiche che ne migliorerebbero i risultati. La prima domanda delle aziende è stata: «quante pensa di metterne?». Tradotto: a quanto le possiamo vendere?
Un altro esempio è quello delle protesi in carbonio pirolitico, molto valide in certe situazioni; sono prodotte in un reattore nucleare e noi italiani siamo costretti a comprarle a caro prezzo dai francesi, ma il rimborso regionale di alcuni di questi interventi è superato già dal costo della protesi. Quindi uno dei gravi problemi di questa chirurgia è che i Drg non corrispondono all’effettivo costo sostenuto. Molti colleghi che lavorano in centri piccoli non possono applicare queste protesi. Il numero di interventi non è poi tanto scarso e qui al Galeazzi facciamo tante Swanson in Silastic ma in genere nelle piccole cliniche non è possibile averle.
Inoltre in certi casi le protesi sono più di una nella stessa mano, come avviene in quella che si chiama deformità «a colpo di vento», in cui tutte le dita vengono deviate verso il bordo e le articolazioni metacarpo falangee da sostituire sono quattro: il costo è quattro volte superiore alla retribuzione dell’intervento.
È anche vero che il numero di interventi che si fanno è inferiore alla necessità e questo è dovuto anche all’insufficiente preparazione di base di molti medici generici e anche di alcuni colleghi reumatologi. Le protesi articolari della mano trovano un’ampia indicazione nell’artrite deformante, condizione patologica relativamente diffusa, ma molti pazienti arrivano da noi attraverso il passaparola tra pazienti e non perché correttamente indirizzati dal reumatologo.
E qual è la situazione della ricerca?
Le ricerche andrebbero fatte sulla base di revisioni casistiche serie. Ogni volta che mi presentano protesi molto simili a quelle che abbiamo abbandonato trent’anni fa perché facevano dei disastri, mi chiedo: quale canale informativo segue il bioingegnere di una ditta quando prende in mano un progetto di una nuova realizzazione? Forse chiede a un singolo chirurgo, ma non c’è un confronto multidisciplinare e multicentrico.
Inoltre va detto che in Italia c’è chi mette a punto una metodica che si rivela fallimentare ma la porta avanti fino alla tomba solo perché l’ha inventata lui e non utilizza quelle fatte da altri. Siamo lontani da un atteggiamento galileiano, secondo cui un’esperienza scientifica deve essere ripetibile.
All’estero non è dovunque così. Qualche anno fa sono stato a Budapest a un congresso dal titolo «The surgery, I don’t do anymore», in cui i chirurghi esponevano serenamente quelle metodiche che fino a qualche anno prima erano sugli scudi ma che si sono dimostrate inefficaci e gli stessi ideatori ne presentavano gli insuccessi e le complicanze. In Italia ricordo un solo esempio di questo atteggiamento: Paolo Bedeschi, che era il direttore della Clinica ortopedica e traumatologica del Policlinico di Modena. Aveva messo a punto una protesi trapezio-metacarpale chiamata Tripodal, ma quando si sono evidenziati dei fallimenti a lungo termine è stato lui stesso a dire pubblicamente a un congresso di non utilizzarle più. È stato un esempio unico di onestà intellettuale.
Per quali condizioni patologiche può essere indicata una protesi?
Prima di tutto le forme degenerative articolari come artrosi e artrite, in secondo luogo eventi traumatici che comprendono fratture e tutto ciò che danneggia un’articolazione, dalle folgorazioni alle ustioni: tutto ciò che crea un danno alle articolazioni può essere trattato in certi casi chirurgicamente con la protesi. Ma ci dev’essere un apparato tendineo, nervoso e vascolare indenne o riparabile altrimenti la chirurgia protesica è destinata al fallimento.
I risultati possono essere buoni, mediocri o scadenti a seconda del punto di partenza. Nelle artriti per esempio, dove si sono formate gravissime deformazioni, è chiaro che i risultati sono sempre limitati, ma il primo scopo è sempre togliere il dolore; se poi c’è un recupero funzionale, ancora meglio.
E quali sono i rischi?
I rischi sono quelli di tutti gli interventi in cui si utilizza il bisturi, dall’infiammazione alle infezioni; c’è poi il rischio di rigidità ma ne vorrei segnalarne uno che sarebbe evitabile: la frequente impossibilità di accedere tempestivamente agli interventi riabilitativi. Spesso non è possibile un’autofisioterapia da parte del paziente ed è necessaria una terapia assistita almeno nelle prime fasi. Ma oggi dopo l’intervento c’è una sequela burocratica per cui il paziente deve fare l’impegnativa e poi aspettare per essere visitato dal fisiatra, che a volte non capisce e dà comunque una prescrizione su cui il chirurgo non può intervenire; poi il paziente deve aspettare che il fisioterapista abbia il posto per poterlo trattare, magari così passa un mese e il risultato viene compromesso.
Negli ospedali vecchio stile, si faceva il giro insieme al fisioterapista che vedeva il paziente e spesso veniva in sala operatoria per capire meglio cosa facevamo e cosa doveva fare lui, mentre adesso il fisioterapista ha pochi minuti contati per fare gli ultrasuoni o il laser. Col progresso che c’è stato nella medicina, si è persa la possibilità di agire rapidamente sul paziente.
Renato Torlaschi
Giornalista Tabloid di Ortopedia

Protesi Apsi in sostituzione al polo prossimale di scafoide
(Da: Alessandra Scalese. Attuali orientamenti in tema di trattamento di morbo di Kienböck. Tesi di specializzazione)

Protesi Apsi in sostituzione del semilunare
(Da: Alessandra Scalese. Attuali orientamenti in tema di trattamento di morbo di Kienböck. Tesi di specializzazione)
PROTESI APSI: «INDICAZIONI ESTESE ALLA SOSTITUZIONE DEL SEMILUNARE»
È stato Carlo Grandis, chirurgo della mano all’Istituto Ortopedico Galeazzi di Milano, a fare le prime esperienze di utilizzo in Italia della protesi parziale di scafoide Apsi (Adaptive proximal scaphoid implant, Tornier). «Innanzitutto – spiega Grandis – è in carbonio pirolitico, il cui impiego è derivato dalle esperienze nelle protesi cardiache perché il materiale, con la sua struttura molto regolare e simile a quella del diamante, impedisce la formazione di coaguli e non richiede l’uso di anticoagulanti. Inoltre, la sua particolarità è di essere adattiva, non ha un gambo che la fissa alla parte restante dello scafoide ma segue la geometria variabile del polso. Se si fa un esame radiografico dinamico si vede che tutte le ossa del carpo si muovono a seconda dei movimenti del polso assumendo posizioni spaziali differenti. Se si mette una protesi con un gambo e la si fissa, in qualche modo crea delle resistenza e tende a rompere l’osso, mentre questa si muove in modo sincrono con i movimenti del polso» ci ha spiegato il chirurgo.
La protesi Apsi è stata ideata dai francesi Pequignot e Allieu, ma Grandis ne ha esteso le indicazioni alla sostituzione del semilunare, l’osso vicino allo scafoide, che può essere affetto dalla necrosi asettica detta sindrome di Kienböck. «È un osso mal vascolarizzato; a volte idiopaticamente e a volte a seguito di microtraumi si riassorbe e crea quindi la grave artrosi del polso. La sostituzione, tra l’altro per via artroscopica, è andata molto bene e abbiamo proseguito con gli esperimenti fino a portarla al congresso mondiale sul Kienböck a Vienna, dove gli esperti internazionali ne hanno apprezzato l’utilizzo, e ora la Fda americana ha approvato l’uso della Apsi anche per la sostituzione del semilunare».