Fans, eparina, antibiotici, chemioterapici: la possibile interferenza di questi e altri farmaci sui processi di riparazione ossea è stata indagata per lo più su modello animale ed è quindi impossibile trarre conclusioni definitive per la pratica clinica
Le possibili interferenze di alcuni farmaci sui processi osteoriparativi è oggetto di interesse ormai da qualche decennio, da un lato perché le classi farmacologiche annoverate tra i potenziali interferenti, in senso sia negativo che positivo, sono molte e dall’altro perché alcune di esse rientrano fra i trattamenti comunemente prescritti nel periodo post-fratturativo.
La ricerca scientifica svolta in merito in questo lungo tempo ha prodotto un gran volume di lavori sugli effetti e i meccanismi di azione delle diverse molecole, che però consistono per lo più in studi di laboratorio, effettuati in vitro e su modello animale. I dati clinici sull’uomo sono, al contrario, ancora molto scarsi, prodotti da pochi studi retrospettivi e da ancor meno studi prospettici randomizzati controllati. Tale carenza è rilevante se si considera che soprattutto gli studi effettuati in altre specie animali – in questo campo numerosissimi – lasciano sempre un margine di incertezza circa la trasferibilità dei risultati all’uomo a causa delle peculiarità fisiologiche di ciascun organismo, nella fattispecie per quanto riguarda sia il metabolismo osseo, sia i profili farmacocinetici.
La letteratura scientifica è quindi ricca di informazioni, in alcuni casi molto dettagliate ma allo stesso tempo difficilmente traducibili in indicazioni pratiche.
A fornire un inquadramento del rapporto tra farmaci e guarigione delle fratture in una prospettiva clinica è Chiara Ratti, ortopedico e referente per l’Ambulatorio dell’osteoporosi severa e della fragilità ossea della Clinica ortopedica e traumatologica dell’Azienda sanitaria universitaria integrata di Trieste, diretta dal professor Luigi Murena. La dottoressa Ratti con un gruppo di collaboratori ha presentato sull’argomento un’esaustiva rassegna all’ultimo congresso della Società italiana di ortopedia e traumatologia (Siot) e pubblicato sull’organo ufficiale della società scientifica (Giot 2018;44(S1):S89-93).
Dottoressa Ratti, visto che alcuni dei farmaci che sembrano interferire con i processi riparativi sono spesso utilizzati nel periodo di guarigione dell’evento fratturativo, qual è la strategia di trattamento raccomandata?
Effettivamente diversi farmaci con indicazione d’uso proprio in questo contesto rientrano tra quelli che possono avere effetti negativi sulla guarigione delle fratture.
A cominciare dai Fans per i quali, sebbene le evidenze sull’uomo siano discordanti oltre che poche, molti autori concordano nel suggerire un impiego cauto e di durata limitata nei soggetti a rischio di guarigione difficoltosa.
Anche per quanto riguarda l’eparina e i suoi derivati, a dispetto del diffuso impiego che se ne fa nei pazienti fratturati, i dati clinici sono sorprendentemente pochi; tuttavia, sulla base di quelli sperimentali, nella prescrizione della profilassi tromboembolica è consigliabile tenere conto della possibile interferenza di questi anticoagulanti con i processi osteoriparativi, valutando la predisposizione agli eventi trombotici del singolo paziente.
Nel caso degli antibiotici, largamente utilizzati in traumatologia sia per la prevenzione che per il trattamento delle complicanze infettive, è ancora più difficile dare indicazioni pratiche dal momento che quanto si conosce emerge esclusivamente da sperimentazione animale. Tuttavia una considerazione a parte può essere fatta per la classe dei fluorochinoloni, alla quale appartengono diverse molecole abitualmente prescritte per i più comuni patogeni nosocomiali, che sono note per i loro effetti avversi sui condrociti e delle quali, di conseguenza, si sconsiglia in questo ambito l’utilizzo per periodi prolungati.
Quali sono i pazienti a rischio di guarigione difficoltosa?
La riparazione e la consolidazione di una frattura dipendono sia da fattori biologici e meccanici locali che dallo stato di salute generale del paziente, dall’età e dalla presenza di comorbidità.
Tra queste ultime vanno ricordate innanzitutto le condizioni che comportano un’alterazione del microcircolo, le patologie che alterano il metabolismo osseo, quali l’osteoporosi primitiva e secondaria, l’insufficienza renale cronica, le patologie oncologiche.
Attenzione particolare va poi dedicata al paziente diabetico, nel quale alla microangiopatia si aggiungono alcuni fenomeni che interferiscono specificamente con i meccanismi osteoriparativi: ridotta proliferazione cellulare nei primi momenti della formazione del callo osseo, glicazione delle proteine che regolano la neoformazione del tessuto osseo, anomalie nella sintesi del collagene. In questi pazienti è quindi fondamentale garantire un controllo glicemico il più possibile adeguato.
Tra i fattori di rischio vanno poi inclusi il fumo, il cui effetto negativo sulla consolidazione e la guarigione ossea è ormai comprovato, l’abuso di alcol e le condizioni di malnutrizione.
Ci sono differenze nei processi riparativi tra fratture traumatiche, fratture osteoporotiche e altre fratture patologiche?
La guarigione ossea per via intramembranosa e/o encondrale è caratterizzata da una serie di eventi ben orchestrati che comprendono attivazione, reclutamento e differenziazione delle cellule mesenchimali nella fase precoce, formazione del callo osseo, angiogenesi e rivascolarizzazione nella fase intermedia e rimodellamento nella fase finale.
In presenza di osteoporosi sia postmenopausale che senile, questo processo è meno efficiente poiché risente della scarsa qualità ossea di base e dell’età avanzata del soggetto. I riscontri in modelli animali hanno evidenziato nell’osso osteoporotico alcune alterazioni rispetto ai livelli di cellule mesenchimali, ai processi di differenziazione di condrociti e osteoblasti, ai fenomeni di invasione vascolare e quindi rispetto all’evoluzione della degradazione della matrice cartilaginea e della neoformazione ossea, nonché dell’apporto di fattori di crescita e citochinici nella sede del callo osseo.
Anche il paziente oncologico può avere una scarsa qualità ossea, con aumentato rischio di fratture patologiche da un lato e di difficoltosa guarigione dall’altro. In presenza di un processo neoplastico si verifica in genere uno squilibrio del rimodellamento osseo a favore del riassorbimento, che può essere localizzato a livello della massa tumorale/metastasi o della frattura patologica oppure essere generalizzato, molto probabilmente come risultato del rilascio di peptide correlato al paratormone (PTHrP) o di altri fattori da parte del tumore primario. Inoltre il paziente neoplastico può essere sottoposto a trattamenti specifici che possono rallentare il processo di guarigione delle fratture.
Nel caso dei pazienti oncologici quali sono le implicazioni dei trattamenti antitumorali?
L’effetto negativo degli agenti chemioterapici e dei trattamenti radianti sul turnover osseo è noto da diversi anni. Ma anche in questo caso i molti dati disponibili concernono prevalentemente studi in vitro o su modello animale.
In uno dei pochi lavori incentrati sull’uomo, uno studio caso-controllo condotto al Massachusetts General and Children’s Hospital di Boston nel 2001 su un campione di 200 alloinnesti osteoarticolari eseguiti su altrettanti pazienti affetti da tumori ossei maligni di femore o tibia, fu dimostrato, con pari incidenza di infezioni, fratture, recidive e amputazioni, un tasso di mancata consolidazione significativamente maggiore in concomitanza del trattamento chemioterapico.
Per quanto riguarda la radioterapia, i meccanismi istologici alla base degli effetti delle radiazioni ionizzanti (osteonecrosi, ritardata osteoriparazione) sono stati osservati in vitro in colture di osteoblasti: una riduzione dose-dipendente della proliferazione e della differenziazione cellulare associata a un’alterazione del profilo citochinico.
Da qualche tempo viene esplorato l’utilizzo di farmaci per promuovere i processi di osteoriparazione: qual è lo stato dell’arte in questo campo?
Attualmente non esistono farmaci approvati per il trattamento dei ritardi di guarigione, anche se diverse molecole potrebbero avere un razionale di utilizzo in questi casi. Sul potenziale ruolo di alcune di esse nel modulare l’osteoriparazione si hanno alcune nozioni, derivanti, ancora una volta, prevalentemente da modelli animali.
Ovviamente i farmaci più studiati sono gli antiosteoporotici, che hanno come target proprio le cellule del turnover osseo.
Ai bisfosfonati viene attribuita la capacità di aumentare la BMD, il volume e la forza del callo osseo, tuttavia nella pratica clinica l’inibizione del rimodellamento da parte di queste molecole potrebbe in realtà portare a un rallentamento della riparazione della frattura.
Anche l’anticorpo monoclonale denosumab sembrerebbe aumentare il volume, la mineralizzazione e la forza torsionale del callo osseo.
Il teriparatide ha dimostrato analoghi effetti positivi e nonostante manchino trial clinici randomizzati di buona qualità sull’uomo, i pochi lavori esistenti hanno ispirato un utilizzo sempre maggiore di questo analogo del PTH come farmaco off label nella gestione di fratture e pseudoartrosi.
Di un certo interesse sono oggi gli anticorpi anti-sclerostina, a seguito dell’osservazione che pazienti con deficit della proteina presentano un’aumentata massa ossea e maggiore resistenza alle fratture. Gli studi di laboratorio ne hanno in effetti evidenziato la capacità di indurre in condizioni di osteoporosi un aumento della formazione di osso trabecolare, periostale, endocorticale e intracorticale, ma risultati incoraggianti sono stati raggiunti anche in ambito clinico, analizzando i marker biochimici di formazione ossea in uomini sani e donne in menopausa.
Infine, alcuni studi candidano l’insulina come potenziale agente terapeutico per il trattamento delle fratture, in considerazione del fatto che gli osteoblasti esprimono recettori specifici per l’ormone e che in vitro esso ne stimola direttamente la proliferazione. In studi su modelli animali si è osservato che la somministrazione locale di insulina produce un aumento della quantità di cartilagine a livello del callo e ne migliora gli score radiografici e biomeccanici.
OSTEORIPARAZIONE: LARGO IMPIEGO DEI TRATTAMENTI NON FARMACOLOGICI, MA LE EVIDENZE NON SONO CONCLUSIVE_Quali trattamenti alternativi a quelli farmacologici possono risultare favorevoli alla guarigione delle fratture? A rispondere alla domanda è ancora Chiara Ratti, ortopedico e referente per l’Ambulatorio dell’osteoporosi severa e della fragilità ossea presso l’Azienda sanitaria universitaria integrata di Trieste. «In letteratura vengono riportate diverse tecniche alternative, anche se i dati sono piuttosto contrastanti – osserva l’esperta –. Un esempio è costituito dagli ultrasuoni pulsati a bassa intensità (Lipus), il cui effetto positivo sulla guarigione delle fratture di tibia e radio è stato riportato inizialmente in studi in doppio cieco condotti negli anni Novanta ed è stato invece messo in dubbio da studi successivi, cosicché la discussione sul loro ruolo nella pratica clinica è ancora aperta. La stimolazione elettrica – continua Ratti – ha dimostrato in vari studi un’attività pro-osteogenica e in una recente metanalisi di trial clinici un’influenza positiva sulla percentuale di mancate consolidazioni nonché sulla sintomatologia dolorosa».
Una cosa però è l’evidenza scientifica, tutt’altro è la pratica clinica: Chiara Ratti spiega che «di fatto, nonostante l’assenza di consensus e di evidenze di alto livello, nella pratica clinica le terapie non farmacologiche trovano largo impiego nelle situazioni di rallentamento del processo di guarigione o in presenza di fattori di rischio individuali, impiego che dovrebbe comunque essere attentamente monitorato».
Monica Oldani
Giornalista Tabloid di Ortopedia