Secondo una recente indagine del sindacato Cimo-Fesmed, solo il 28,4% dei medici ospedalieri vorrebbe rimanere come dipendente nel Servizio sanitario nazionale, il resto vuole spostarsi sul privato, andare in pensione anticipata o migrare all’estero. Tra le motivazioni i carichi di lavoro eccessivi, anche in violazione della normativa europea, e la smisurata mole di burocrazia e di compiti di natura amministrativa, a cui si aggiungono la scarsa considerazione del ruolo sociale e soprattutto una retribuzione non commisurata alle responsabilità, cui si è sommato lo stress dovuto al Covid. Analogo risultato ci viene da uno studio Anaao-Assomed, che quantifica in 21mila gli specialisti persi dal Servizio sanitario nazionale negli ultimi tre anni per dimissioni volontarie, pensionamenti, invalidità e decessi.
Anche l’Enpam monitora il malessere da burnout manifestato dai medici italiani: «L’attuale situazione sta portando a molti prepensionamenti che vanno a impattare anche sulla cosiddetta gobba previdenziale che avevamo già scontato nei nostri interventi di riforma. Stiamo quindi tenendo sotto controllo questa tendenza» ha detto il presidente Alberto Oliveti, intervenendo alla Conferenza nazionale sulla questione medica della Fnomceo.
«Questa propensione alla pensione anticipata, espressa da tanti giovani (il 25% dei medici tra i 25 e 34 anni e il 31% di quelli tra i 35 e i 44 anni), è un dato scioccante che fa riflettere e mostra quanto profonda sia la crisi legata alla perdita di fiducia nel futuro, alla mancanza di speranza di un domani migliore per la nostra professione – commenta Filippo Anelli, presidente Fnomceo –. Sono tanti i colleghi che non si riconoscono più in una professione mortificata da carichi di lavoro abnormi e da un’invadenza burocratica che soffoca l’autonomia professionale. La prescrizione farmaceutica e le prestazioni diagnostiche sono oramai appesantite da orpelli, modelli, piani terapeutici e quant’altro, utili solo a sottrarre al medico quel tempo che invece avrebbe dovuto garantire al cittadino. Sono tante, troppe, le ore in più svolte, spesso in violazione delle norme, senza essere totalmente o parzialmente retribuite. Il 64% dei medici ospedalieri e il 73% dei medici del territorio non ha neanche potuto usufruire in maniera totale o parziale delle ferie. Il 74% dei medici del territorio e il 66% dei medici ospedalieri non ha a disposizione un adeguato tempo libero per vivere la sua vita privata e familiare».
Come si legge dai sondaggi, l’aumento dei carichi di lavoro ha sottratto tempo alla famiglia, al riposo, alla vita privata. Nel corso degli ultimi due anni, la maggioranza dei medici del territorio (55%) e degli ospedalieri (44%) ha dovuto rinunciare o ridurre i giorni di ferie. Conciliare la gestione familiare con quella lavorativa è diventata un’impresa quasi impossibile per i medici del Ssn.
Il fenomeno della Great Resignation
Dal burnout, alla ricerca di un posto che preservi il proprio benessere, al desiderio di poter avere la possibilità di gestire le giornate di lavoro difendendo la conciliabilità tra vita e lavoro. Questi sono solo alcuni dei motivi che hanno portato un fenomeno noto come “Great Resignation”, il significativo aumento delle dimissioni, che vede un numero crescente di persone in numerosi ambiti lavorativi lasciare il loro impiego, anche tra le fila degli operatori sanitari. Complice dell’innesco di questo meccanismo è stata sicuramente la pandemia, che ha nettamente peggiorato le condizioni di lavoro negli ospedali.
Il fenomeno in sè non è nuovo ma i dati del Conto annuale del Tesoro (Cat) evidenziano che dal 2017 in tutta Italia si assiste a una sua vera e propria esplosione, con un trend in progressivo aumento. I dati del 2020 e del 2021, tratti dal database Onaosi, confermano il persistere di una quota importante di licenziamenti (passati da 2000 a 3000) che si aggiungono alle uscite per pensionamento. Il tutto con l’aggiunta dell’enorme carico emotivo legato all’alto numero di contagi e alle morti per Covid tra gli stessi operatori sanitari, in un contesto che già lamentava pesanti carenze di organico (-46 mila addetti tra il 2009 e il 2019).
Dunque, 2886 medici ospedalieri, il 39% in più rispetto al 2020 ha deciso di lasciare la dipendenza dal Ssn e proseguire la propria attività professionale altrove (dati derivati dal database Onaosi sulla cessazione della contribuzione obbligatoria).
Nel 2021 la media nazionale dei medici dipendenti che hanno deciso di licenziarsi è stata del 2,9%, percentuale abbondantemente superata dalla Calabria (3,8%) e dalla Sicilia (5,18%). La Lombardia, che era già oltre la media italiana nel 2020, aumenta ancora i suoi dimessi del 43%. La Liguria in un anno triplica i medici che si dimettono, la Puglia passa dal 2,04% al 3,29 %. Una fuga senza precedenti, da Regioni con storie, organizzazioni e realtà sanitarie completamente diverse, ma unite da un sentimento comune: i medici non vogliono più lavorare in ospedale. Cercano invece orari più flessibili, maggiore autonomia professionale, minore burocrazia. Cercano un sistema che valorizzi le loro competenze, un posto di lavoro che permetta di dedicare più tempo ai pazienti e poter avere a disposizione più tempo anche per la propria vita privata, così da non dover sacrificare il tempo in famiglia. Anche a causa del blocco del turnover, i turni di servizio per i singoli operatori sono in netto incremento numerico negli ospedali italiani, con weekend quasi tutti occupati da guardie e reperibilità, con difficoltà perfino nel godere delle ferie maturate e straordinari non retribuiti. Il lavoro non solo è diventato sempre più gravoso, ma gli operatori sanitari sono costretti quotidianamente ad affrontare rischi crescenti legati ad aggressioni, sia verbali che fisiche, e denunce in sede legale. La polarizzazione sembra allora essere verso il settore privato, sempre più attrattivo, anche per la possibilità di un trattamento fiscale agevolato del reddito prodotto. Soprattutto, il lavoro nel privato è considerato meno stressante: si affronta una casistica di elezione e la remunerazione, particolarmente in ambito chirurgico, è elevata. Il cambiamento culturale e sociologico è così forte che sempre di più i neolaureati ambiscono a specializzazioni spendibili sul mercato privato (cardiologia, dermatologia, pediatria, oculistica, chirurgia plastica), allontanandosi da quelle considerate più gravose e rischiose (medicina d’urgenza, chirurgia generale, ortopedia) che non riescono più a saturare i contratti di formazione disponibili annualmente.