STORIE DELLA PANDEMIA_ Al tempo dell’emergenza sanitaria più grave degli ultimi 100 anni, il solo pensiero che l’ortopedico “ti curi la polmonite” dovrebbe motivare le persone a stare a casa, secondo l’affermazione diventata virale del virologo Fabrizio Pregliasco. Non possiamo dargli torto: difficile immaginare cosa possa fare un ortopedico in un triage Covid19 o in una terapia intensiva o subintensiva.
Per questo abbiamo aspettato che calasse il peso sugli ospedali e cercato alcuni degli ortopedici che si sono messi a disposizione per l’emergenza. Nessuno degli intervistati ha però voluto che venisse riportato il proprio nome. Sono ortopedici di città duramente colpite da Sars-CoV-2 in Lombardia ed Emilia Romagna. E chi li conosce, forse stenterà a riconoscerli in queste parole…
Come è stato il tuo ingresso nel reparto Covid?
> Mi sono offerto come volontario per il reparto Covid19 del mio ospedale appena è scoppiata l’emergenza.
> Anche io, ho dato la mia disponibilità come volontario quando ho visto il mio ospedale cambiare faccia, da un giorno all’altro, letteralmente modificare percorsi, divise, nomi delle aeree, una tenda fuori dal pronto soccorso.
> Vestirsi, il primo giorno, con la tuta, la maschera, visiera protettiva e casco, è stato subito emotivamente molto più pesante di quanto pensassi. Niente però a confronto con il senso di impotenza che ho provato come ortopedico.
> Sebbene come chirurghi siamo abituati ai ritmi della sala operatoria, a operare nei nostri scafandri fatti di maschera-visiera-casco indossati per ore, quando entri in area Covid19 quello che indossi ti lascia il segno sulla pelle, perchè non lo indossi solo, ma cerchi di farlo aderire alla pelle come a fare il sottovuoto.
Cosa ha significato per te essere ortopedico in questa emergenza?
> Pensavo di poter dare il mio piccolo contributo, invece mi sono sentito impotente, capace di fare niente.
> L’ortopedia non ti insegna a fare i conti con la disperazione e con la morte, con pazienti che entrano in pronto soccorso Covid19 con sintomi lievi e dopo poco non respirano più, con le barelle che vanno e vengono, da una parte i malati, e dall’altra i corpi.
> Noi siamo fortunati come chirurghi, perché nella stragrande maggioranza dei casi sappiamo come risolvere il problema del paziente, gli risolviamo il dolore, aggiustiamo una frattura, mettiamo una protesi e via. Qui invece, in questa emergenza, arrivano pazienti che non conosci, di cui non sai niente o poco della loro storia clinica. Ti guardano con la fame d’aria e non sanno se sei un ortopedico o uno pneumologo: ti chiedono di aiutarli a respirare. E tu, non puoi perchè non sai cosa fare, e chiami il collega e l’infermiere e poi ti metti lì, a fare quel poco che ti chiedono di fare, se c’è qualcosa da fare.
> È un’esperienza che ti cambia, capisci innanzitutto di “non essere capace”. Capisci che non c’è una soluzione per tutti, e che il tuo essere un ortopedico di successo a cui anche i tuoi colleghi si rivolgono per consigli, che viene invitato ai congressi internazionali, non serve a niente adesso, che i tuoi follower e i tuoi like non servono più. Ne vieni fuori cambiato, anche se ci sei entrato solo due volte in quella terapia intensiva Covid19.
Cosa si prova a sentirsi chiamare “eroe”?
> Io eroe?! Ma siamo seri. Non sapevo cosa fare in quel reparto, guardavo gli anestesisti e gli infermieri della terapia intensiva, e chiedevo: “come posso aiutarti?”.
> Mi sono trovato ad aiutare a pronare i pazienti intubati, perchè le braccia forti di un ortopedico sono utili anche a quello; mi sono trovato a scrivere cartelle e lettere di trasferimento, cosa che in genere non è tra le cose che preferisco; ho cercato di consolare con gli occhi i colleghi esausti, e non so neanche se ci sono riuscito.
> Io, che in sala operatoria sono definito “freddo”, ho provato tutta l’angoscia dei colleghi e degli infermieri che ci mettevano l’anima per salvarli tutti, ma ne morivano tanti.
> No, se ci sono degli eroi, di certo non siamo noi ortopedici.
Liana Zorzi
Giornalista Tabloid di Ortopedia