
Cesare Giuseppe Cerri
Il recupero funzionale condotto dagli specialisti d’organo è una scelta eticamente appropriata? L’essere umano non è una macchina con singoli componenti da riparare e l’uso esclusivo di un approccio specialistico lascia molti dubbi
Di tanto in tanto riemerge la discussione su chi sia il “titolare” dell’attività riabilitativa in medicina: se sia meglio che essa sia affidata a uno specialista di medicina riabilitativa o a uno specialista d’organo. In altri termini se sia più importante conoscere la metodologia e la funzione o se invece sia meglio conoscere la neurologia, l’ortopedia, la cardiologia, ecc.
Dato per assodato che se riteniamo che riabilitazione e recupero funzionale non siano sinonimi, ma che il secondo sia parte della prima e che l’approccio corretto alla persona assistita sia quello globale che considera unitariamente i problemi anatomici, fisiologici, psichici e sociali, dal punto di vista scientifico e tecnico non vi è altra possibilità che affidare allo specialista di medicina riabilitativa e al team di professionisti della riabilitazione la direzione e l’esecuzione dell’intervento riabilitativo. Vediamo se lo stesso ragionamento vale anche dal punto di vista etico.
Aspetti etici legati alla disabilità
La disabilità acquisita o congenita pone la persona che ne è affetta in condizioni di svantaggio rispetto ai propri consimili nell’esecuzione dei compiti che normalmente devono essere svolti durante le attività della vita quotidiana. Potremmo osservare che il concetto di svantaggio può variare a seconda delle condizioni ambientali (l’essere affetto da dislessia può rappresentare una grave disabilità nel contesto di una popolazione di letterati studiosi, ma può essere poco rilevante nel contesto di una popolazione che non usa la comunicazione scritta) o in relazione alle aspettative personali e sociali (essere stonati in una famiglia che per tradizione esercita la professione di cantante lirico). Queste osservazioni molto sintetiche evidenziano che non è possibile dare una definizione di disabilità che sia quantitativa, valida per ogni condizione e strumentalmente misurabile: il parametro principale è di tipo binario, riuscire a fare quello che fanno gli altri o non riuscirci. Anche su questo va osservato che occorre definire quanti debbano essere “gli altri” in grado di fare, in quanto tempo, con quali strumenti e con che metodologia (molti intellettuali se dovessero vangare per seminare i propri alimenti non sarebbero in grado di finire il compito a causa della propria inefficienza prima ancora che dello scarso allenamento e molti contadini sarebbero in difficoltà col raccolto se non avessero a disposizione le ricerche in agraria per stabilire i tempi e modi della semina).
Di conseguenza spesso ci si limita a considerare disabile la persona che abbia una manifesta alterazione anatomica o che non sia in grado di svolgere autonomamente alcune attività (motorie o cognitive) della vita di tutti i giorni; nel primo caso entriamo nell’ambito dei rapporti con il “diverso”, nel secondo caso la questione si sposta sugli aspetti del rapporto assistenziale.
Rimane in entrambi i casi in sospeso la questione etica di fondo: qual’è il valore della persona etichettata come disabile? Solamente se consideriamo la persona un valore di per sé, per il solo fatto di esistere, la domanda non ha senso: ogni persona vale allo stesso modo indipendentemente dalle abilità cognitive o motorie, altrimenti i costi dell’assistenza o del rapporto dovranno essere bilanciati col valore attribuito a quella persona (o meglio alle persone con quella situazione di disabilità). Ma il concetto di persona è entrato in crisi nel corso del secolo scorso quando si sono affacciate sulla scena posizioni filosofiche che non si accontentano dell’appartenenza al genere umano per la definizione di persona, ma hanno introdotto la necessità di altri elementi quali ad esempio la capacità di pensiero o la dimostrazione della percezione del reale, per non parlare del revival dell’eugenetica (cito solo ad esempio l’obiettivo di una popolazione “down free” della Danimarca).
In questo contesto il disabile può diventar persona (al di là delle buone intenzioni nell’imporre un linguaggio “politically correct”) solo se si avvicina alle prestazioni degli altri membri della comunità. Più o meno consciamente questo si rivela nelle pieghe dei regolamenti contro la discriminazione e la disabilità quando prevedono l’abbassamento di fatto delle soglie di performance per ottenere un attestato o un titolo di studio. Un conto infatti è utilizzare un ausilio per poter raggiungere l’obiettivo, altro conto è il modificare l’obiettivo: un lettore ottico mi permette di raggiungere l’obiettivo di leggere lo stesso testo dei miei colleghi, farlo leggere da un’altra persona no. Anche se ottengo lo stesso titolo di studio un datore di lavoro realizzerà rapidamente che in realtà il titolo non garantisce la stessa abilità e che nel primo caso c’è autosufficienza, mentre manca nel secondo.
Quindi diventa più importante garantire la possibilità di svolgere le attività secondo la modalità ritenuta normale, cioè il recupero funzionale, rispetto all’approccio globale “olistico” alla persona con disabilità. Nel primo caso è la persona che si deve adeguare alle esigenze della società, nel secondo la persona è aiutata a trovare fra le richieste della società quella che meglio s’addice alle sue capacità.
Inclusione o integrazione?
A margine possiamo rilevare come l’approccio secondo le categorie della correttezza politica finisce spesso per determinare, sia pure involontariamente, situazioni non di inclusione bensì di tolleranza o al massimo di integrazione, cioè la persona è sì inserita nel contesto sociale, ma come appartenente a un particolare gruppo “protetto” dalla legge e non come persona in sé. Ovvero inclusione implica che sia irrilevante distinguere le persone in base alle loro caratteristiche di abilità, mentre integrazione implica che comunque le persone sono raggruppate sulla base delle loro abilità.
Conseguenze etiche dell’intervento limitato al recupero funzionale
Se sono persona solo se faccio quello che tutti gli altri fanno, l’obiettivo non può essere che uno solo: riuscire a far fare al mio corpo quello che fanno gli altri. Da quanto detto risulta evidente che questo tipo di impostazione porta inesorabilmente a privilegiare il recupero funzionale. Ne consegue che lo specialista che ne sa di più sulla parte del corpo che non funziona è quello cui devo rivolgermi per ripararla. Qui potremmo anche fare una digressione sulla concezione di sé e più in generale dell’essere umano come “macchina” scomodando Renee Descartes e Julien Offray de La Mettrie, ma rimandiamo l’approfondimento ad altra occasione; più interessante è verificare i legami fra riabilitazione d’organo, concezione dell’essere umano e valore della persona in relazione alla disabilità.
Come noto l’argomentazione principale delle specializzazioni che aggettivano la riabilitazione (neurologica, ortopedica, cardiaca, polmonare ecc.) è che la competenza sulla patofisiologia dell’organo sia sufficiente anche per garantire un intervento riabilitativo efficace, giocando peraltro sull’equivoco riabilitazione uguale recupero funzionale. Tuttavia non è detto che il recupero funzionale sia possibile o che possa raggiungere il livello precedente alla lesione, o più banalmente il trascorrere del tempo gioca comunque a sfavore delle prestazioni dopo una certa età. Inoltre la disabilità, come oramai attestato dall’organizzazione mondiale della sanità, non è conseguenza diretta dell’alterazione d’organo e quindi essendo per definizione l’intervento limitato al recupero funzionale dell’organo le componenti biopsicosociali ne sono escluse.
Dal punto di vista etico ciò comporta un venir meno al principio di beneficenza e un possibilmente anche alla non-maleficenza in quanto si corre il rischio di privare la persona assistita di attività che prevengano l’instaurarsi di danni secondari o terziari. Si potrebbe obiettare che a questo si può ovviare coinvolgendo altri specialisti, ma l’esperienza insegna che ciò non configurerebbe un intervento unitario, al contrario si avrebbero un sovrapporsi di proposte terapeutiche talora con interazioni negative fra di loro (si pensi al problema della multifarmaco terapia nell’anziano). A livello più generale il sostenere l’esclusiva competenza dello specialista d’organo nella riabilitazione di talune disabilità ha due risvolti sulla mentalità generale: rinforza l’idea che l’essere umano sia paragonabile a una macchina complessa e quindi possa/debba essere possibile ripararlo comunque e, ponendo l’accento sulle prestazioni, mantiene l’idea che la persona con disabilità “valga meno” o comunque sia diverso dai cosiddetti normali.
Osservazioni finali
Nella nostra società si è passati da un affronto predominantemente medico al problema dell’inclusione della persona con disabilità a un approccio fortemente indirizzato all’utilizzo di strumenti legali e legislativi: potremmo dire che se un tempo il problema era affrontato in termini sanitari e individuali, adesso lo è in termini sociologici e generali. In questo contesto l’intervento dello specialista d’organo è funzionale alla concezione di individuo come parte di un sistema sociale in cui ognuno ha un compito (pre)definito al fine di far funzionare al meglio il sistema, un po’ come la formica nel formicaio per citare “Gödel Escher Bach” di D. Hofstadter. In questo contesto la persona con disabilità, se non fosse “riparabile”, sarebbe un peso per il sistema; di conseguenza la prevenzione si riduce all’eliminazione precoce (vedi feti con trisomia 21 in Danimarca) e, se il recupero funzionale non è totale, la marginalizzazione o l’eliminazione (vedasi proposte legislative e leggi sull’eutanasia) sono la soluzione ideale.
L’acconsentire alla cosiddetta riabilitazione specialistica neurologica, ortopedica, cardiologica ecc. non solo fa venir meno il modello diagnostico terapeutico biopsicosociale sintetizzato dalla categorizzazione ICF dell’Organizzazione mondiale della sanità, ma impedisce l’impostazione di un progetto riabilitativo che porti all’inclusione della persona con disabilità che è la finalità propria dello specialista in medicina riabilitativa, privando quindi la persona di una opportunità fondamentale per la propria vita.
Un ultimo aspetto è legato alla intrinseca inefficienza dello specialista d’organo per quanto riguarda la messa a punto e il coordinamento di un progetto riabilitativo che coinvolga più professionisti sanitari della riabilitazione (fisioterapista, logopedista, terapista occupazionale, educatore professionale ecc.) nuovamente venendo meno all’imperativo di fornire alla persona il miglior trattamento terapeutico o curativo possibile. In sintesi, l’uso esclusivo in riabilitazione di un approccio specialistico d’organo non solo è scientificamente poco sostenibile, ma presenta anche aspetti negativi dal punto di vista etico.
Cesare Giuseppe Cerri