
Da sinistra, Lorenzo Drago e Carlo Luca Romanò
Ricerca e pratica clinica stanno facendo importanti passi avanti grazie alla collaborazione tra microbiologi e ortopedici. L’Italia è in prima fila in questo filone di ricerca e ne fa il punto al congresso internazionale «Milano biofilm meeting»
L’Irccs Istituto Ortopedico Galeazzi di Milano fa parte (come l’Istituto Ortopedico Rizzoli di Bologna) dell’Isoc, l’International Society of Ortopaedic Centers, che riunisce venti centri di eccellenza ortopedica nel mondo.
In occasione del sesto congresso Isoc dello scorso ottobre a Città del Messico, Lorenzo Drago, responsabile del Laboratorio di analisi cliniche e microbiologiche del Galeazzi, ha parlato del diffuso scollegamento tra clinica chirurgica e laboratorio, «che invece hanno tutto da guadagnare nel condividere le stesse strategie dall’inizio alla fine». Con lui, Carlo Luca Romanò, direttore del Centro di chirurgia ricostruttiva e delle infezioni osteo-articolari (Crio), è alla presidenza del Milano biofilm meeting, incontro internazionale che nell’Area Expo, dal 19 al 21 giugno, fa intravedere un promettente futuro nel controllo delle infezioni in chirurgia protesica. «Questo convegno – spiegano i due professionisti che, con estrazioni diverse, affrontano il problema delle infezioni – ha la pretesa della multidisciplinarierà, molto importante in ortopedia, perché accomuna l’aspetto clinico ortopedico e quello di laboratorio, la chirurgia e la ricerca di base, questo è l’imprinting che abbiamo voluto dare al meeting. Del resto le nostre ricerche, ormai da cinque o sei anni, sono caratterizzate dalla stretta collaborazione, siamo tra i primi al mondo ad aver adottato questo approccio che fornisce un valore aggiunto a partire dall’obiettivo comune di chirurghi e microbiologi: la ricerca è decisamente orientata all’assistenza clinica».
Professori Romanò e Drago, nell’incontro milanese si parla di infezioni correlate al biofilm. Perché sono un tema di grande attualità?
Intanto perché hanno un’epidemiologia importante e poi perché molte sono le novità, a cui il nostro gruppo di lavoro al Galeazzi ha dato un contributo significativo.
Le infezioni correlate al biofilm, che per noi equivalgono alle infezioni correlate ai materiali impiantabili, sono un grosso problema di salute pubblica. L’ortopedia è la specialità guida riguardo ai materiali impiantabili: ogni anno si fanno circa un milione di protesi negli Stati Uniti e altrettante in Europa, di cui intorno alle 170mila in Italia. Come si vede sono numeri molto alti, anche limitandoci alle protesi articolari, ma poi ci sono i materiali impiantabili che si usano per fissare le fratture, materiali da osteosintesi e anche qui i numeri in Europa si stimano vicini al milione. Com’è noto, le infezioni sono tra le possibili complicanze e interessano una platea enorme di persone anche se dopo gli interventi di protesica si verificano in percentuale relativamente bassa, una o due volte su cento, mentre dopo le sintesi per fratture variano da livelli simili fino al 20-25% nelle fratture esposte. Ma è chiaro che, trattandosi di una chirurgia molto frequente, il numero di pazienti colpiti da questa complicanza ammonta a parecchie migliaia ogni anno ed è, quella delle infezioni correlate agli impianti, una problematica molto difficile da gestire sia dal punto di vista diagnostico, che della prevenzione, che del trattamento.
Come mai l’interesse, ancora più che sui batteri, si sta ora concentrando proprio sul biofilm?
Da molti decenni si è consapevoli della presenza del biofilm, ma solo da una dozzina d’anni si è cominciato a capire quali sono le implicazioni in ambito clinico e le soluzioni a questo problema sono state proposte negli ultimissimi anni o addirittura mesi.
Il biofilm è sostanzialmente presente in tutte le infezioni correlate ai materiali impiantabili ma anche nella maggioranza di tutte le infezioni che hanno un andamento cronico e interessa dunque anche altre specialità. Infezioni croniche di difficile trattamento, come quelli delle vie urinarie, l’otite media, l’osteomielite cronica, le ferite che non guariscono, sono in genere legate alla capacità dei batteri di produrre biofilm.
L’Istituto americano di sanità stima che l’80% delle infezioni che affliggono i Paesi occidentali siano correlate al biofilm e richiedono quindi una diagnostica, sistemi di prevenzione e trattamenti speciali.
Ma cos’è esattamente il biofilm?
È una sostanza polisaccaridica prodotta dai batteri con lo scopo di proteggersi, che li avvolge completamente: una corazza li rende più resistenti alle cellule immunitarie, alle immunoglobuline e agli stessi antibiotici, che in molti casi non sono in grado di penetrare il biofilm e arrivare a contatto con il batterio. È proprio per questo motivo che esistono infezioni croniche veramente difficili da eradicare.
In molti nostri studi condotti con tecnologie molto particolari come la microscopia cofocale, abbiamo visto che il biofilm, quando c’è del materiale estraneo come per esempio gli impianti di titanio, si aggrappa fortemente alla superficie e talvolta nemmeno il debridement, i vari lavaggi, le soluzioni antibiotiche, i disinfettanti sono in grado di rimuoverlo.
Il clinico ha la percezione visiva che avendo rimosso quei tessuti abbia eliminato anche il biofilm ma non ne ha mai la sicurezza, infatti le infezioni sono più frequenti nei pazienti che ne hanno già sofferto. Stiamo dunque cercando soluzioni alternative agli antibiotici, prodotti il cui target principale sia proprio il biofilm, ancora più dello stesso batterio.
Perché gli studi sul biofilm hanno un interesse prima di tutto diagnostico?
Sempre più spesso, oggi si cerca di isolare il batterio per poi metterlo in cultura e determinare il cosiddetto antibiogramma, che consente a infettivologo e ortopedico di formulare una risposta farmacologica mirata contro i microrganismi effettivamente presenti. Il problema è che quando il batterio è immerso nel biofilm è difficile da staccare e isolare.
Il nostro gruppo di lavoro ha sviluppato una tecnologia che riteniamo molto importante ed è stata inserita nelle linee guida italiane per i microbiologi clinici, che si può usare in tutti i laboratori: si chiama MicroDTTect ed è un sistema di campionamento biologico in grado di rimuovere meglio i batteri e dare una maggior quantità di positivi. Invece, in condizioni normali le culture ottenute da un pezzo protesico, nel 30-40% risultano negative anche se c’è il batterio.
Prima d’ora, per la formulazione dell’antibiogramma a fini diagnostici, si usava la sonicazione, una procedura molto farraginosa e ormai obsoleta; abbiamo infatti scoperto che sonicando non si sbrigliava il biofilm tanto da rendere i batteri isolabili in cultura pura. Ora, il sistema MicroDTTect è molto più semplice ed è basato su una sacca, a sistema chiuso per evitare contaminazioni, contenente un liquido chiamato ditiotreitolo (DTT).
Come funziona nella pratica clinica?
In sala operatoria, dopo aver tolto la protesi, è sufficiente metterla nella sacca e il lavoro del chirurgo è finito; poi, in laboratorio o direttamente in sala operatoria, il microbiologo rompe la valvola, il liquido che scioglie il biofilm va a contatto con la protesi e dopo dieci minuti si può estrarre il liquido, metterlo in cultura e si ottiene una resa di isolamento dei batteri superiore alle tradizionale tecniche di cultura dei tessuti almeno del 20-30% e almeno uguale alla sonicazione, che ha una complessità molto maggiore e richiede molti passaggi con un conseguente alto rischio di contaminazione.
La diagnostica ha aspetti diversi. Quella di cui parlavamo è la diagnostica intraoperatoria, che si propone di identificare con la massima sicurezza possibile se la protesi rimossa è infetta oppure no, così come per le placche nelle fratture che non guariscono e magari la causa è proprio un’infezione, che spesso può decorrere senza produrre febbre o arrossamento, presentando come unico sintomo il dolore: si tratta di germi a lento accrescimento che impediscono di osservare l’infezione e rendono molto difficile la diagnosi differenziale. Così, nelle fratture magari l’unico evento osservabile è la non guarigione e non se ne conosce la ragione. Per questo è importante non buttare via le protesi o gli impianti rimossi, come si faceva una volta.
Ma un’altra parte della diagnostica è preoperatoria, per capire prima dell’intervento se il paziente è più o meno suscettibile a infezioni.
Di quali strumenti disponiamo per la diagnosi preoperatoria?
Abbiamo diverse possibilità, a cominciare da marker che si trovano nel sangue e sono stati studiati negli ultimi anni, molti anche da noi. Altri si trovano nel liquido sinoviale, cioè vicino alla protesi: in diversi casi di infezione, l’articolazione si gonfia e si può aspirare il liquido per esaminarlo in laboratorio, facendo l’esame culturale del liquido per identificare il batterio, anche se il 20-30% delle volte risulta negativo.
Nel liquido sinoviale c’è prima di tutto l’esterasi. Le numerose pubblicazioni su questo enzima ci danno una buona certezza che sia un ottimo marker, ed è anche stato indicato nelle linee guida prodotte nella consensus conference di Philadelphia.
Sarebbe necessario averne altri e ora si sta studiando l’alfa-defensina, ma è ancora presto per capire se potrà essere un sostituto dell’esterasi; su questo peptide sono stati pubblicati appena due studi che suggeriscono una sensibilità e specificità maggiori dell’esterasi; noi non ne abbiamo ancora esperienza diretta, ma potremmo presto disporre di uno strumento che ci consentirà di approfondirne la conoscenza.
Il marker classico presente nel sangue è invece la Pcr, molto studiata, e ora cominciano a essercene di nuovi, per esempio l’interleuchina e anche alcuni marker immunologici, ma questi ultimi scontano il fatto che l’immunologia varia molto da un individuo all’altro e servono quindi approfondimenti.
I fattori di rischio variano da un paziente all’altro?
Certamente sì. L’infezione nasce da una interazione tra quattro elementi: microrganismo infettante, i nostri trattamenti che cercano di combatterli, l’eventuale presenza di biomateriali e l’ospite, che gioca un ruolo centrale.
Lo stesso trattamento sulla stessa carica batterica sullo stesso impianto può avere effetti molto diversi, come mostrato anche dalle evidenze di letteratura.
Con una diagnosi migliorata si attaccano meglio i batteri, ma come si può colpire direttamente anche il biofilm?
Intanto, usando l’antibiotico giusto si fa già un grande passo avanti perché i batteri agiscono un po’ secondo l’effetto gregge e, riducendone il numero, non formano biofilm.
Bisogna poi adottare strategie combinate che possano rimuovere il biofilm sia meccanicamente che dal punto di vista farmacologico e infine usare l’antibiotico.
Ci sono molecole che attaccano direttamente il biofilm. Una di queste è l’anicetilcisteina, un mucolitico che ha una certa efficacia. Ora abbiamo allo studio delle molecole naturali prodotte da altri batteri che hanno una potente attività antibiofilm, in qualche modo stiamo operando proprio come con i primi antibiotici, che erano stati prodotti da muffe.
I biofilm sono diversi per ciascun tipo di batterio e batteri della stessa specie di Staphylococcus aureus o Staphylococcus epidermidis (i microrganismi che troviamo dal 50% al 70% delle infezioni protesiche) possono produrre biofilm diversi tra loro.
Ma ci sono molecole in grado di distruggere un po’ tutti i biofilm, attaccando per esempio dei ponti di solfuro che sembrano universali e comuni a tutti i biofilm. Abbiamo provato l’n-anicetilcisteina in una quindicina di casi e possiamo confermare che si tratta di una molecola molto ben tollerata, senza alcun effetto collaterale; richiede però un tempo di azione molto lungo ed è applicabile solo localmente, assunta per via orale non funziona. Un altro composto che utilizziamo ormai da qualche anno è un biovetro (BonAlive) con un’attività antibatterica ad ampio spettro senza essere un antibiotico ed è perfettamente tollerato; ne abbiamo ormai un’ampia casistica e ha decisamente mantenuto le promesse. È utilizzato per tumori ossei benigni, ma anche osteomieliti, infezioni dopo osteosintesi o fratture.
Renato Torlaschi
Giornalista Tabloid di Ortopedia