
Paolo Righi
Nelle rotture massive irreparabili della cuffia dei rotatori, in pazienti selezionati con una richiesta di recupero non solo della funzione ma anche della forza, il transfer del gran dorsale è un’opzione chirurgica valida e alternativa alla protesi
Indicata nelle lesioni irreparabili dei tendini della cuffia dei rotatori postero superiore, la tecnica del transfer del gran dorsale si utilizza quando la degenerazione tissutale miotendinea (atrofia grassa maggiore del 30%) non consente una riparazione anatomica e biomeccanicamente funzionante.
«La tecnica chirurgica richiede una curva d’apprendimento piuttosto lunga – dice Paolo Righi, responsabile di chirurgia di spalla della Clinica San Camillo di Forte dei Marmi e ortopedico del gruppo di specialisti di spallaonline.it –. Attenzione alle indicazioni e alla conoscenza delle strutture vascolari e nervose presenti nell’ascella, perché sono le principali complessità da affrontare per un chirurgo già esperto in chirurgia aperta e artroscopica di spalla».
Dottor Righi, definiamo anzitutto il concetto di lesione irreparabile di cuffia
Il concetto di irreparabilità è dato da una situazione muscolo-tendinea non recuperabile, in una spalla altamente disfunzionale o pseudoparalitica, causata dalla perdita delle abilità motorie muscolo-tendinee che lavorano con il deltoide.
Venendo meno questa coppia di forze non è più possibile mantenere il sistema di centratura della testa dell’omero e pertanto viene a definirsi una migrazione verso l’acromion cercando un nuovo fulcro cinematico stabile.
Se in un paziente che per età e caratteristiche biologiche che consentono la riparabilità funzionale della cuffia si cerca di eseguire sempre una riparazione anatomica con sistemi di tecnica artroscopica, in un paziente di 55-65 anni, uomo o donna, con richieste funzionali legate al recupero non solo del movimento ma anche della forza, l’obiettivo è ricostituire una coppia di forze dinamicamente efficace con il deltoide, per ricentrare la testa nella glena togliendola dall’acromion (abbassamento dinamico della testa). Basti pensare a un muratore, un operaio, un agente delle forze dell’ordine, ma anche a un disabile in carrozzina che conta sulla forza delle proprie braccia per condurre in modo indipendente la propria vita quotidiana.
Alcuni potrebbero dire che si tratta di casi in cui c’è l’indicazione anche per l’impianto di protesi inversa. Non c’è dubbio: tuttavia, se si pensa ai tempi di osteointegrazione che richiede una glenosfera della scapola e alla richiesta di un paziente disabile, per esempio, che ha la necessità di riprendere in brevi tempi gli appoggi sulle braccia che gli servono per mobilizzarsi dalla carrozzina, è facile intuire che la protesi non è la soluzione. Pertanto, prelevando e trasferendo il tendine gran dorsale, fisiologicamente destinato ad altre funzioni, abbiamo la possibilità di dargli un andamento tale che il vettore che esprime riesce a ripristinare una coppia di forze con il deltoide e quindi dare al paziente la possibilità di elevare il braccio. Infatti, pur prelevando e trasferendo il gran dorsale, la funzione viene mantenuta dal gran rotondo, che ha la capacità di ipertrofizzarsi e di rinforzarsi a tal punto che il paziente non avverte la presenza di un deficit.
Quali sono le caratteristiche di questo intervento?
Si tratta di un intervento combinato, in cui sono necessarie competenze specifiche, che si svolge in due fasi. Infatti è necessaria una grande esperienza nella chirurgia aperta, che costituisce la prima fase dell’intervento, fondamentale per isolare e rendere possibile il transfer miotendineo e ripristinare una biomeccanica utile alla elevazione; nella seconda fase è necessaria una grande esperienza in artroscopia, per preparare il sito per il passaggio e il fissaggio del transfer del gran dorsale, oltre a eseguire gesti accessori come il release capsulare circonferenziale, che può essere eseguito solo in artroscopia.
Infine, dal momento che la via d’accesso è l’ascella, la tecnica chirurgica definita transfer del gran dorsale richiede anche competenze dell’assetto anatomico dell’ascella, che spesso è un’area anatomicamente “sconosciuta” al chirurgo ortopedico, ma ricca di importanti vasi e fasci nervosi fondamentali anche per la funzione del braccio.
Qual è il passaggio più complesso?
La tecnica non è semplice, ma le maggiori difficoltà nascono dall’insicurezza dell’inesperienza. Senza dubbio, però, dopo l’identificazione del gran dorsale, è necessario sapere dove va disinserito, cosa bisogna proteggere, come trovare il piano di clivaggio tra gran rotondo e gran dorsale, come riconoscere e rispettare il peduncolo vasculo-nervoso del gran dorsale, accorgimento tecnico per rendersi conto che l’entità dello scollamento sia quello che permette di raggiungere il sito dell’impianto, riconoscere il punto di passaggio che dall’ascella porta allo spazio subacromiale.
Questo passaggio non è intuitivo sia perchè le diverse strutture sono estremamente compatte, sia perchè viene effettuato in iperabduzione, condizione che modifica tridimensionalmente la disposizione anatomica di tale area. Questo contribuisce a rendere piuttosto lunga la curva di apprendimento per questo tipo di intervento.
Come è stata la sua curva di apprendimento?
Ho appreso questa tecnica chirurgica dal dottor Enrico Gervasi che ha messo a punto la tecnica del transfer del gran dorsale, a cui sono grato per avermi insegnato e seguito nell’apprendimento. Dopo aver eseguito un paio di interventi sotto la sua guida, i primi transfer del gran dorsale effettuati da solo come primo operatore hanno richiesto, in alcuni casi, quasi il doppio o il triplo del tempo che impiego oggi, dopo oltre 150 casi.
In media, per la mia esperienza, le tempistiche di un intervento di transfer del gran dorsale corrispondono a quelle di una riparazione standard di rottura massiva della cuffia dei rotatori: poco più di 45 minuti rispetto alle 2-3 ore che impiegavo all’inizio. Ridurre così tanto i tempi di esecuzione non è questione di avere più talento; dipende invece dalla pratica e dalla confidenza che si acquisisce con la pratica stessa. Di conseguenza, ridurre così tanto i tempi vuol dire ridurre anche i tempi di esposizione dei siti chirurgici (ascella) del paziente e quindi il rischio di infezione, visto che il transfer del gran dorsale è anche un intervento aperto e non solo artroscopico.
La letteratura riporta che anche le riparazioni funzionali di cuffia in questi pazienti danno risultati buoni. Qual è la sua esperienza?
Per la mia esperienza, con una casistica arrivata a follow-up di 8 anni, nel paziente attivo, 50-55enne, con una rottura massiva irreparabile e con richieste funzionali, la tecnica del transfer del gran dorsale permette di ottenere risultati in termini di forza e durata decisamente superiori rispetto alla riparazione funzionale di cuffia.
Va detto che il risultato dipende dal grado di deficit funzionale iniziale. Pertanto, il paziente con solo un deficit di elevazione avrà le più alte potenzialità di recuperare la funzione utile e la forza rispetto al paziente con un deficit di abduzione e di rotazione esterna, che ha quel caratteristico segno chiamato automatic recall, ovvero con rottura massiva arrivata fino al piccolo rotondo. Un paziente con questo segno diagnostico, ritenuto molto grave, dopo l’intervento recupererà meno, avrà una minor funzionalità rispetto al paziente con lesione massiva ma più lieve. Nonostante il recupero sia inferiore rispetto a lesioni massive irreparabili meno gravi, i risultati sono comunque superiori a quelli della riparazione funzionale.
Tuttavia, è bene sottolineare che questa tecnica non deve diventare l’approccio d’elezione per tutte le rotture massive della cuffia.
Come vive il paziente questo tipo di intervento?
Per il paziente non è sempre facile accettare che la soluzione al suo problema sia modificare l’anatomia della sua spalla andando incontro a un intervento “più cruento”. Quando però il giorno dopo l’intervento gli chiedi come va, e ti risponde: “pensavo molto peggio”, di fatto capisci che la spiegazione dell’intervento in fase di discussione con il paziente è fondamentale, ma il post-operatorio viene vissuto quasi come si trattasse di un’artroscopia normale.
Quali consigli darebbe a un collega interessato ad apprendere questa tecnica chirurgica?
Innanzitutto, seguire corsi specifici e andare ad apprendere la tecnica da chi ha esperienza. Rispetto alla mia casistica e in base alla mia esperienza, inoltre, selezionare bene il paziente. Per esempio, i miei 5 fallimenti sono avvenuti solo su pazienti maschi over 70 e femmine over 68, specie in presenza di comorbidità come il diabete. Verificata l’associazione tra limite di età, diabete, abitudine al fumo di sigaretta e aumentato rischio di fallimento, ho compreso che l’età rappresenta un limite, specie nelle donne, per una questione di capacità di reclutamento muscolare soprattutto della scapolo-toracica, e in particolar modo del deltoide. Tuttavia, i risultati del transfer sono soddisfacenti anche in maschi di 70 anni e in femmine di 66-67 anni, motivati, in buone condizioni di salute generale e non fumatori.
Liana Zorzi
Giornalista Tabloid di Ortopedia