Accompagnando il costante aumento del numero delle procedure di artroprotesi, il continuo perfezionamento delle tecniche chirurgiche e il progressivo miglioramento degli esiti, la ricerca clinica si sta via via concentrando sulla definizione e la valutazione dell’appropriatezza di tali interventi, che significa determinarne l’opportunità e la corretta tempistica nei singoli casi al fine di ottimizzarne il rapporto costi-benefici.
Il lavoro svolto presso la Northwestern University di Chicago sulle modalità di esecuzione delle sostituzioni protesiche di ginocchio negli Stati Uniti – che sono circa un milione l’anno – ha esattamente questo senso. «Il buon esito di un’artroprotesi di ginocchio e il vantaggio che ne deriva al paziente sono fortemente influenzati dal momento, nella storia naturale della condizione patologica di base, in cui l’intervento viene attuato – sottolineano gli autori –. Anticiparlo rispetto alle indicazioni può essere pregiudizievole tanto quanto ritardarlo, con la possibilità nel primo caso di esporre il paziente al rischio di una chirurgia importante e complessa con scarso successo e nel secondo caso di lasciare tempo all’aggravarsi del quadro clinico e della disabilità».
Il materiale esaminato dai ricercatori è costituito dai dati raccolti in due studi prospettici multicentrici di coorte, la Ostetoarthritis Initiative (Oai) e il Multicenter Osteoarthritis Study (Most), tra il 2003 e il 2006, per un totale di oltre 8.000 pazienti con diagnosi clinica e radiologica oppure condizioni di predisposizione per osteoartrosi di ginocchio. Indicazioni e controindicazioni alla sostituzione protesica totale dell’articolazione sono state determinate sulla base dei criteri di Antonio Escobar (2003) modificati da Daniel Riddle (2014), mentre gli autori hanno fissato a due anni dal momento dell’indicazione l’intervallo di tempo considerato adeguato per il compimento dell’intervento.
Delle 3.123 articolazioni con indicazione certa o probabile all’artroprotesi, ritenuta dunque “potenzialmente appropriata”, meno del 10% è stato sottoposto all’intervento entro i due anni stabiliti, sebbene una parte rilevante (42,5%) dei restanti casi fosse gravemente sintomatica secondo la scala di valutazione per l’osteoartrosi Womac (con punteggi per dolore e funzione maggiore o uguale a 34). Per converso, 294 articolazioni considerate non ancora candidabili alla chirurgia sono state operate nello stesso intervallo di tempo, quindi “prematuramente” secondo la valutazione degli autori, rappresentando oltre un quarto (26,4%) del numero totale (1.114) degli interventi attuati nel periodo coperto dallo studio.
«Percentuali così alte di interventi mancati o al contrario eseguiti a dispetto delle specifiche indicazioni devono spingerci da un lato a rivedere i criteri per la definizione e la valutazione della relativa appropriatezza e dall’altro a esplorare i fattori che ne condizionano così pesantemente la pianificazione» affermano Daniel Riddle e collaboratori.
Va da sé che quest’ultimo aspetto puntualizzato dagli autori è strettamente connesso alle caratteristiche del contesto demografico e sanitario oltre che alle variabili cliniche. Tanto per fare un esempio, dalla loro analisi per sottogruppi il rischio di procrastinare o evitare l’intervento è risultato più alto nella popolazione afro-americana e la tendenza ad anticiparlo era più diffusa tra i pazienti più giovani e tra quelli che vivono da soli.
Monica Oldani
Giornalista Tabloid di Ortopedia
