Al congresso dell’Associazione italiana per lo studio della traumatologia della pelvi il focus è sulle fratture nell’anziano. Intanto sul territorio emergono errori nelle procedure di primo soccorso e carenze nella disponibilità di centri specializzati
La chirurgia traumatologica del bacino è caratterizzata da un alto grado di complessità sia per la sua natura di trattamento d’urgenza, sia per le caratteristiche del distretto pelvico e delle relative lesioni ossee. Il congresso nazionale dell’Associazione italiana per lo studio della traumatologia della pelvi (Aip), che si terrà (con nuove date) il 25 e 26 settembre a Roma, si occupa di un argomento specifico caratterizzato da ulteriore complessità: “Le fratture pelviche dell’anziano: dalla sintesi alla protesi”. A presiedere i lavori sono Alessandro Are e Francesco Liuzza.
Ma l’argomento non è solo clinico e coinvolge anche aspetti organizzativi, forse oggi carenti. Ne abbiamo parlato con Guido Rocca, responsabile del Cto Regionale del Veneto che ha sede presso l’ospedale di Camposampiero – Aulss 6 “Euganea” in provincia di Padova e attuale presidente Aip. Rocca ha al suo attivo più di 4.000 interventi di chirurgia traumatologica e prima di arrivare a Camposampiero ha lavorato a Verona, dove è stato responsabile del Centro regionale per la chirurgia della pelvi e del bacino.
Dottor Rocca, perché Aip ha scelto di dedicare l’intero congresso al paziente anziano?
Perché il soggetto anziano costituisce per molti versi per la traumatologia della pelvi una tipologia di paziente sui generis.
Innanzitutto il soggetto di età avanzata è in parte diverso da quello più giovane dal punto di vista epidemiologico. Infatti, se è vero che in generale alla base delle fratture del bacino ci sono sempre traumi ad alta energia, è anche vero che negli ultimi anni stiamo assistendo a un aumento delle lesioni conseguenti a impatti a bassa energia, concentrato nella popolazione anziana. Si tratta in questi pazienti di fratture che si realizzano in ossa più fragili, a carico talora dell’anello pelvico ma più spesso dell’acetabolo a causa del tipo di traumatismo qui più frequente, che è quello con impatto laterale sull’anca, come nelle cadute dalla bicicletta, nelle cadute in casa o in alcuni casi di investimento pedonale.
Ma la ridotta densità minerale e le alterazioni strutturali che possono verificarsi a livello del cingolo pelvico nei soggetti con malattia metabolica dell’osso rappresentano un aspetto critico anche dal punto di vista del trattamento chirurgico, per la difficoltà di posizionare correttamente placche e viti, individuando per il fissaggio i punti in cui anche l’osso osteoporotico possa offrire una sufficiente resistenza. Quasi sempre si rende necessario, dopo aver valutato spessori e residua consistenza ossea, scegliere accuratamente lunghezza e dimensione dei dispositivi da utilizzare per poterli applicare proprio nelle sedi anatomiche di maggior tenuta.
Infine l’anziano è anche spesso un paziente ad alto rischio perioperatorio per la presenza di multimorbilità e politerapie; un rischio che tuttavia deve essere pesato rispetto alla perdita di autonomia che la mancata riduzione di una lesione dell’anello pelvico con instabilità sacro-iliaca o anche solo dell’acetabolo comportano. In casi selezionati di frattura acetabolare, quando le condizioni generali del soggetto sono molto critiche, si può optare per la protesizzazione dell’anca posticipata a due o tre mesi di distanza, dovendo comunque affrontare gli effetti deleteri dell’allettamento prolungato.
Esulando dal caso particolare del soggetto anziano, quali sono gli aspetti più problematici della chirurgia traumatologica della pelvi?
Il primo aspetto problematico riguarda il fatto che gli esiti del trattamento delle fratture del bacino si determinano, ancor prima che in sala operatoria, in sede di primo soccorso, dove la procedura di stabilizzazione del bacino attraverso l’applicazione della fascia pelvica – o in alternativa anche il bendaggio con un telo – può salvare la vita del soggetto qualora alla lesione ossea, soprattutto se è a carico dell’anello pelvico, si associ un’emorragia dovuta alla rottura di vasi addominali. Quest’ultima nel 90% dei casi avviene a livello dei plessi venosi addominali ed è spesso molto grave, potendo arrivare a 25 litri/ora.
Tale procedura, che dovrebbe essere di routine per tutti i casi nei quali una frattura di bacino è ipotizzabile semplicemente sulla base dell’anamnesi situazionale, viene invece effettuata in modo incostante sul territorio nazionale, con grosse differenze nella competenza dei servizi di primo soccorso tra regioni e aree geografiche.
Del resto tale situazione è il riflesso di quello che è il secondo aspetto critico della chirurgia traumatologica della pelvi, cioè dell’altrettanto discontinua distribuzione dei centri traumatologici specializzati, attualmente ben rappresentati nel Nord Italia o lungo la costa adriatica, ma scarsi al Sud, nelle isole e lungo la costa tirrenica.
Se si pensa che quello delle fratture del bacino è sempre un trattamento in emergenza-urgenza in cui tempistica e organizzazione dei diversi interventi sono fondamentali, si comprende come questi debbano essere da un lato perfettamente pianificati a priori e dall’altro in carico a strutture dotate di know how specifico e di personale altamente qualificato, nonché gestite da traumatologi. Purtroppo, come dicevo, questa non è la realtà più diffusa e il destino del singolo paziente, dal momento del primo soccorso fino al trasferimento in un Hub traumatologico, magari passando attraverso uno Spoke locale dove dovrebbe esserne garantita la stabilizzazione, dipende ancora troppo dalle caratteristiche sanitarie del luogo in cui si verifica il trauma.
Secondo i miei calcoli, a causa delle disparità nelle procedure di soccorso e nella disponibilità di centri specializzati, in Italia si perdono per traumi gravi 1.000-1.800 pazienti l’anno. E parlando di tempistica vorrei sottolineare come questa tipologia di traumi dovrebbe essere trattata da un chirurgo pelvico competente possibilmente entro 10 giorni dall’evento traumatico. Superato tale periodo di tempo il caso diventa inveterato, le reazioni cicatriziali che si instaurano rendono estremamente difficoltoso e rischioso l’intervento chirurgico, una buona riduzione dei frammenti ossei diventa impossibile e i risultati funzionali sono per lo più assai scadenti.
Quali sono i principali elementi di complessità di questa chirurgia?
Innanzitutto il fatto che il bacino ha una anatomia molto complessa, dove per la riduzione delle fratture si richiedono manovre talvolta energiche ma al contempo di grande precisione in un campo di lavoro in cui si è a stretto contatto con strutture vascolari e nervose di importanza critica, quali i vasi iliaci e il nervo femorale anteriormente, l’arteria glutea e il nervo sciatico posteriormente.
Per questo motivo la traumatologia della pelvi è un settore in cui il fattore determinante del buon esito dell’intervento è tuttora costituito dalla competenza specifica e dall’esperienza dell’operatore, e in cui, diversamente da quanto accade per altri distretti, non c’è ancora spazio per le tecnologie chirurgiche avanzate come la robotica.
Inoltre si tratta di una chirurgia particolarmente delicata visto che l’obiettivo che ci si deve sempre porre è il ripristino della deambulazione e quindi dell’autonomia del paziente, sia nelle fratture dell’anello pelvico che in quelle dell’acetabolo.
Per quanto riguarda le prime bisogna considerare che l’80% della resistenza del bacino si concentra nell’articolazione sacroiliaca e che un errore nella riduzione di una frattura in questa zona genera una sintomatologia dolorosa importante, soprattutto nella postura eretta, e pertanto una perdita di funzionalità. D’altra parte anche la mancata riduzione di una semplice diastasi della sinfisi pubica, che viene spesso sottovalutata e non trattata intenzionalmente, può avere effetti a lungo termine negativi, come dispareunia nella donna e disfunzione erettile nell’uomo.
Nondimeno le fratture dell’acetabolo, certamente meno pericolose nell’immediato per la sopravvivenza del paziente, sono forse ancora più impegnative dal punto di vista tecnico, perché una riduzione dei margini della frattura che non sia preciso al millimetro apre la strada a una rapida degenerazione artrosica dell’articolazione, con comparsa di dolore coxale intenso ed esiti funzionali nefasti.
Quali sono in tema di tecniche chirurgiche gli sviluppi più recenti?
Se parliamo di innovazioni forse la più significativa degli ultimi dieci anni è stata l’adozione, in luogo dell’accesso ileo-inguinale tradizionalmente in uso, dell’accesso endopelvico. Personalmente, dopo aver seguito, insieme con il dottor Raffaele Pascarella, una fellowship con il professor Kyle Dickson negli Stati Uniti presso la Tulane University of Louisiana, ho apportato alcune modifiche a un accesso endopelvico anteriore noto come via di Stoppa, descrivendo nel 2014 il nuovo accesso chirurgico, che ho chiamato Ace approach (Anterior Combined Endopelvic), sulla rivista internazionale Injury.
Questo accesso garantisce una migliore visualizzazione del focolaio di frattura, facilitando la salvaguardia delle strutture vascolari e nervose a rischio, una più facile riduzione dei frammenti ossei e, nel caso delle fratture acetabolari, rendendo in particolare molto più semplice la riduzione della lamina quadrilatera. L’Ace approach rappresenta a mio parere l’accesso più idoneo per il trattamento delle lesioni anteriori di bacino, anche perché eludendo i grossi vasi e il nervo femorale garantisce un’ampia visione diretta, rendendo più facile la comprensione della frattura e anche le manovre per ridurla. Tali vantaggi rendono anche la curva di apprendimento di questa chirurgia molto più breve.
Per quanto riguarda la riduzione delle fratture ultimamente vengono proposte tecniche mininvasive effettuate con viti e fili di Kirschner introdotti per via percutanea e anche in Italia vi sono colleghi molto abili nell’eseguirle. Tuttavia, vista la difficoltà di attuare una riduzione ossea dall’esterno, esse hanno indicazioni molto limitate, richiedono mani espertissime e non danno le stesse garanzie di resistenza meccanica che si ottengono con le placche da ricostruzione utilizzate nella chirurgia a cielo aperto.
Mi trova altresì scettico l’utilizzo della fissazione esterna quale mezzo di sintesi definitivo, pratica ancora largamente diffusa in Italia a dispetto di evidenti svantaggi: il fissatore esterno non offre proprietà meccaniche sufficienti a garantire a lungo il mantenimento della riduzione di una frattura; le manovre riduttive e la sua applicazione non sono semplici e dovrebbero essere eseguite solo da mani esperte; il suo utilizzo in emergenza è sempre troppo tardivo e inefficace nel contrastare un’eventuale instabilità emodinamica.
Qual è il rapporto della chirurgia traumatologica della pelvi con gli altri settori disciplinari eventualmente coinvolti?
Ruolo essenziale nell’approccio multidisciplinare ai casi di trauma complesso del bacino spetta senz’altro all’imaging radiologico e ai software di rielaborazione delle immagini: un’indagine Tac nei piani assiale, coronale e sagittale con ricomposizione multiplanare (Mpr) e con la possibilità, grazie alla tecnologia 3D, di ottenere ricostruzioni tridimensionali rappresenta ormai un elemento imprescindibile sia per la diagnosi che per il planning preoperatorio. Oggi con una Tac multislice da 64/128 banchi di detettori si riesce a eseguire una scansione completa total body in poco più di un minuto. La radiologia tradizionale, con le tre proiezioni di Judet o di Pennal, entra in gioco, invece, nel periodo di follow-up, anche per valutare il processo di guarigione e porre indicazioni sulla concessione del carico e della deambulazione.
L’apporto della radiologia è indispensabile inoltre per la gestione delle eventuali complicanze extrascheletriche del trauma: nelle lesioni dell’anello pelvico con emorragia, l’impiego dell’angiografo in emergenza da parte di un radiologo interventista può salvare il paziente. Così come è spesso necessario essere affiancati da colleghi specialisti della chirurgia addominale e in particolare urologica, dato che nelle fratture dell’anello pelvico spesso si associa una lesione della vescica.
Altrettanto importante è la collaborazione con i fisiatri e i fisioterapisti nel post-operatorio, perché anche dal punto di vista riabilitativo le fratture del bacino costituiscono un capitolo a parte, con una tempistica e con modalità specifiche.
Monica Oldani
Giornalista Tabloid di Ortopedia

ACE APPROACH: LA PIÙ SEMPLICE VIA DI ACCESSO AL BACINO_Gli approcci chirurgici al bacino hanno subito diverse evoluzioni, dalla via ileo-inguinale di Judet e Letournel alle modifiche della via anteriore intrapelvica di Stoppa da parte di Hirvensalo e di Cole e Bolhofner, fino alle nuove proposte di accessi intrapelvici oggi raggruppate sotto l’acronimo Aip (Anterior IntraPelvic).
La Anterior Combined Endopelvic (Ace) approach è una combinazione della via di Stoppa modificata con un accesso laterale in corrispondenza della cresta iliaca. I punti di repere anatomici di riferimento per l’incisione cutanea sono l’ombelico, la sinfisi pubica e la spina iliaca antero-superiore (Sias). Utilizzando una penna dermografica vengono collegati con una linea verticale i primi due e con una linea curva, che procede in direzione disto-mediale lungo la piega inguinale, la Sias e un punto situato circa 1 cm al di sopra del pube, facendola poi proseguire controlateralmente per 3-4 cm. Al di sotto del tessuto sottocutaneo la fascia addominale viene incisa appena al di sopra del piano osseo del pube in direzione latero-laterale per 5-6 cm o eventualmente fino alla Sias in base al planning pre-operatorio.
Allo scopo di allargare il campo di visualizzazione può essere opportuno distaccare dall’inserzione distale all’osso pubico uno o entrambi i muscoli retti dell’addome con elettrobisturi per poi cranializzarli, esponendo così ampiamente l’arco anteriore intrapelvico. In caso di frattura acetabolare interessante la lamina quadrilatera va ottenuta l’esposizione della parte laterale del piccolo bacino al di sotto del brim pelvico attraverso lateralizzazione dei tessuti molli con apposito divaricatore curvo, previo isolamento dei vasi iliaci dal piano osseo, e la completa visualizzazione della lamina con l’introduzione, al di sotto dell’arteria otturatoria e del nervo otturatorio, di un retrattore a S italica.
Bibliografia:
1. Rocca G, Bolcic S, Patronis D, Boero E. Via di accesso innovativa alla lamina quadrilatera: Anterior Combined Endopelvic (ACE) approach. Lo Scalpello (2018) 32:82-85.
2. Rocca G, Spina M, Mazzi M. Anterior Combined Endopelvic (ACE) approach for the treatment of acetabular and pelvic ring fractures: a new proposal. Injury 2014;45 Suppl 6:S9-S15.