Nel novero dei fattori di rischio per le complicanze cardiovascolari degli interventi di chirurgia maggiore un ruolo rilevante è da tempo attribuito all’ipotermia perioperatoria, in ragione dei meccanismi compensatori attivati dal sistema ortosimpatico che inducono un incremento della frequenza cardiaca e delle resistenze vascolari periferiche. Inoltre non mancano in letteratura evidenze di un’associazione dell’ipotermia perioperatoria con altri eventi avversi quali alterazioni della coagulazione, rallentamento del metabolismo dei farmaci, aumentata frequenza di infezioni del sito chirurgico, prolungamento dei tempi di recupero e di ospedalizzazione.
Tuttavia, se sull’opportunità di sottoporre i pazienti a riscaldamento attivo nel corso della procedura il consenso è unanime, tale pratica non è ad oggi universalmente diffusa né è ancora del tutto chiaro quale sia l’escursione termica in grado di prevenire più efficacemente il danno cardiovascolare.
Con l’intento di valutare la validità di due diversi protocolli di termoregolazione intraoperatoria è stato realizzato il trial multicentrico Protect, uno studio di superiorità a gruppi paralleli coordinato dal Department of Outcomes Research della Cleveland Clinic e svolto in collaborazione tra Nord America, Cina e Spagna. Gli oltre cinquemila pazienti del campione, sottoposti tra il 2017 e il 2021 a interventi di chirurgia maggiore non cardiaca di durata superiore a due ore e portatori di almeno un fattore di rischio cardiovascolare, sono stati assegnati per metà al protocollo convenzionale che prevede il mantenimento della temperatura interna a non meno di 35,5°C e per metà alla procedura di riscaldamento aggressivo a 37°C. Per il raggiungimento dei due target termici è stato utilizzato un sistema di ventilazione forzata ad aria calda applicato alla superficie corporea, che è stato attivato solo in caso di diminuzione della temperatura al di sotto dei 35,5°C nel primo caso e invece in modo continuativo a partire da 30 minuti prima dell’induzione dell’anestesia generale nel secondo. In entrambi i gruppi la temperatura interna è stata rilevata a livello dell’esofago distale o del faringe a intervalli di 15 minuti.
Al controllo di follow-up fissato a 30 giorni dagli interventi non sono state riscontrate differenze significative tra i due protocolli sia per l’outcome primario prestabilito, un parametro composito costituito da danno miocardico stimato in base a ripetuti dosaggi delle troponine cardiache, arresto cardiocircolatorio non fatale e mortalità per qualsiasi causa, sia per quelli secondari, rappresentati da infezioni superficiali e/o profonde del distretto chirurgico, infarto del miocardio, necessità di supporto trasfusionale intraoperatorio, variazioni dei livelli di emoglobina, durata della degenza, riospedalizzazione entro 30 giorni dalla dimissione, qualità del recupero determinata in base al punteggio registrato sulla scala Quality of Recovery-15 nel terzo giorno post-operatorio.
«In considerazione del fatto che nel nostro studio – il più ampio finora realizzato sull’argomento – non sia emersa una superiorità del rialzo termico a 37°C ci spinge ad affermare che la procedura di riscaldamento aggressivo non apporti maggiori benefici di quella standard – concludono gli autori –. E pertanto una condizione di ipotermia moderata, purché con mantenimento della temperatura interna a valori non inferiori a 35,5°C, è sufficientemente protettiva nei confronti degli eventi avversi presi in esame».
Monica Oldani
Giornalista Tabloid di Ortopedia