Le fratture della caviglia vanno da semplici avulsioni a lesioni complesse e le opzioni di trattamento sono numerose. La percentuale di quelle che vengono trattate con intervento chirurgico potrebbe essere sostanzialmente ridotta, secondo la tesi che Emilia Möller Rydberg ha presentato all’Università di Göteborg a conclusione del suo periodo di specializzazione in ortopedia. La giovane ricercatrice sostiene che i limiti dei trattamenti attuali sono dovuti in larga parte alla carenza di linee guida terapeutiche strutturate, sia in Svezia che in molti altri Paesi.
Le fratture della caviglia sono tra le più comuni tra le persone di tutte le età. Il registro svedese delle fratture ne riporta 57.433 tra il 2012 e il 2022; analizzandole, si è scoperto che le donne subiscono più fratture alla caviglia rispetto agli uomini e che, nel paese nordico, un gran numero di infortuni è il risultato di cadute scivolando sul ghiaccio o sulla neve.
Se la frattura è grave può richiedere un intervento chirurgico ripetuto, mentre una lesione meno grave, più simile a una distorsione, può essere trattata con un bendaggio elastico. Secondo l’autrice del lavoro, la difficoltà nella classificazione delle lesioni apre la porta a trattamenti effettuati in base al giudizio dei singoli ortopedici o alle diverse routine seguite abitualmente in ogni ospedale. Emilia Möller Rydberg ha allora messo a punto una strutturazione dei trattamenti con l’obiettivo di favorire valutazioni più affidabili e standardizzate.
Per arrivare a questo risultato, l’ortopedica svedese ha analizzato 1.332 fratture di caviglia avvenute tra il 1 aprile 2012 e il 31 marzo 2014. Il trauma ad alta energia era la causa alla base del 7% delle fratture e il 2% erano fratture esposte. Il 63% delle fratture erano di tipo B secondo la classificazione di Weber (iniziano all’altezza del plafond tibiale e hanno un decorso spirale obliquo in alto), il 27% erano fratture di tipo A (interessano il malleolo laterale distalmente al plafond tibiale) e l’11% erano fratture di tipo C (originano prossimalmente al livello del plafond e si associano a una lesione della sindesmosi che si trova tra la frattura peroniera e la caviglia). Il loro esame ha portato allo sviluppo di un algoritmo di trattamento strutturato. La metodica prevede di differenziare le fratture non solo in base al sito e alla tipologia, ma anche di distinguere tra quelle stabili e quelle instabili e di valutare il grado di lesione legamentosa.
«Un algoritmo di trattamento ben implementato – ha dichiarato l’autrice – può determinare una standardizzazione della gestione e del trattamento delle fratture della caviglia. Adottare decisioni che dipendano meno dalle preferenze dei singoli chirurghi possono ridurre significativamente il numero di procedure chirurgiche non necessarie per le fratture stabili della caviglia. Un algoritmo di trattamento strutturato può anche ridurre il numero di esami radiografici, il numero di fratture stabili trattate chirurgicamente e il numero di giorni di immobilizzazione, oltre ad aumentare il numero di pazienti a cui è consentito il carico completo».
In seguito all’adozione di questo approccio al Sahlgrenska University Hospital, i risultati sono stati inequivocabilmente positivi: «abbiamo diminuito il numero di interventi chirurgici senza alcun aumento delle complicanze». È specialmente nelle fratture stabili che il ricorso alla chirurgia potrebbe essere evitato in misura maggiore: nell’ospedale svedese la percentuale di interventi è scesa dal 30% al 10%. Parallelamente, i pazienti a cui è stato consentito di caricare il peso sull’arto infortunato sono passati dal 41% all’84%.
Giampiero Pilat
Giornalista Tabloid di Ortopedia