Sulla scorta del principio che all’interno delle professioni la diversità, a partire da quella di genere, garantisce maggiore efficienza e innovatività e che un livello di diversità efficace dev’essere almeno del 30%, nel 2019 si è sentito il bisogno di fondare l’International Orthopaedic Diversity Alliance (Ioda). Il motivo è che sebbene in molti paesi le donne costituiscano più del 50% dei laureati in medicina e siano ben rappresentate in alcuni ambiti specialistici, nella chirurgia ortopedica la loro presenza è spesso al di sotto del 10% e tra tutte le specialità chirurgiche l’ortopedia è quella con il più basso grado di diversità di genere.
Una recente indagine condotta dalla Ioda a livello globale presso le società medico-scientifiche del settore ha mostrato una presenza femminile variabile dai valori inferiori all’1% di alcuni paesi del sud-est asiatico ai massimi compresi tra il 25 e il 27% di Spagna, Estonia e Germania. Quanto all’Italia, con un 11% si colloca al dodicesimo posto della graduatoria europea.
Barriere organizzative e stereotipi culturali concernenti le prerogative professionali specifiche, in particolare la forza fisica e le abilità tecniche richieste, sono i due principali fattori alla base da un lato dello scarso appeal della chirurgia ortopedica nei confronti delle donne e dall’altro della difficoltosa affermazione femminile in questo ambito lavorativo.
Ma alla fin fine, una volta entrate in sala operatoria, che risultati ottengono le specialiste rispetto ai colleghi uomini?
Dopo che un recente studio statunitense ha rilevato tassi di complicanze sovrapponibili in pazienti sottoposti ad artroprotesi totale di anca indipendentemente dal sesso degli operatori, un gruppo di ricercatori svedesi ha svolto un’analoga indagine a partire da dati di registro su un campione nazionale di quasi 12.000 procedure effettuate tra il 2008 e il 2016 in una decina di centri ospedalieri pubblici da 200 chirurghi, con una presenza femminile del 17,5%.
In generale le 35 donne del campione sono risultate avere al loro attivo un volume annuale medio di interventi di sostituzione d’anca di poco inferiore rispetto ai colleghi (19 vs 23), rappresentare il 14,1% dei medici assunti e il 33,8% degli specializzandi, operare pazienti di età media leggermente superiore e più spesso di sesso femminile, utilizzare protesi cementate con una netta preferenza a paragone con i chirurghi uomini (91,4% vs 65,4%). Rispetto al tasso di eventi avversi, per valutare i quali i ricercatori hanno utilizzato le riospedalizzazioni registrate entro 90 giorni, si è riscontrata una modesta differenza, ma non statisticamente significativa, a favore delle donne.
Sotto questo aspetto lo studio conferma gli esiti del precedente d’oltreoceano, anche se fotografa una realtà locale che in confronto a quelle di altri paesi può avere connotati specifici: per esempio per il fatto che negli ultimi 25 anni la Svezia ha visto aumentare la presenza femminile nella chirurgia ortopedica dal 6% all’attuale 17%, grazie anche a una politica per le pari opportunità che prevede un periodo di congedo parentale di 390 giorni distribuito su entrambi i genitori.
Monica Oldani
Giornalista Tabloid di Ortopedia
Bibliografia:
1. Jolbäck P et al. The influence of surgeon sex on adverse events following primary total hip arthroplasty: a register-based study of 11,993 procedures and 200 surgeons in swedish public hospitals. J Bone Joint Surg Am. 2022 Aug 3;104(15):1327-1333.
2. International Orthopaedic Diversity Alliance. Diversity in orthopaedics and traumatology: a global perspective. Efort Open Rev. 2020 Oct 26;5(10):743-752.