Quella delle complicanze della chirurgia vertebrale è un’area di indagine molto recente, che tuttavia ha già prodotto un ampio repertorio di pubblicazioni. Focalizzando l’attenzione prevalentemente sulla definizione dell’incidenza e dei tassi di diagnosi delle diverse complicanze, la maggior parte degli studi ha però trascurato di determinarne la latenza di comparsa e la distribuzione temporale.
Parametri questi che nella concezione degli autori di un lavoro pubblicato su Spine non possono non condizionare sensibilmente la gestione del decorso post-operatorio.
Attingendo alla casistica dell’American College of Surgeons National Surgical Quality Improvement Program (ACS-NSQIP), Jonathan Grauer e i suoi collaboratori, afferenti ai dipartimenti di chirurgia ortopedica della Yale School of Medicine di New Haven, del Rush University Medical Center di Chicago e della Thomas Jefferson University di Philadelphia, hanno cercato di desumere l’evoluzione del periodo postchirurgico di due procedure di ampia diffusione, la decompressione e fusione cervicale anteriore (ACDF) e la fusione lombare posteriore (PLF), rispetto all’insorgenza delle otto complicanze più comuni: anemia grave (tale da rendere necessario il supporto trasfusionale), infarto del miocardio, polmonite, embolia polmonare, trombosi venosa profonda, setticemia, infezioni del sito chirurgico, infezioni urinarie.
Di ciascuna sono stati rilevati nell’arco di 30 giorni coperto dall’ACS-NSQIP non solo i tassi di diagnosi ma anche l’epoca precisa della comparsa, che è stata rappresentata secondo tre diversi indici di dispersione temporale: il valore mediano, il range interquartile e il range mediano dell’80% delle osservazioni.
Su un totale di quasi 24.000 interventi di fusione intersomatica (12.067 ACDF e 11.807 PLF) i dati temporali hanno messo in evidenza che in entrambi i tipi di procedura le complicanze considerate tendono a raggrupparsi in due cluster: anemia, infarto miocardico, polmonite ed embolia polmonare in un cluster a esordio precoce, con valori mediani rispettivamente di 0, 2, 4, 5 giorni di distanza dall’intervento e range dell’80% delle osservazioni compresi tra 0 e 15 giorni dall’intervento; trombosi venosa profonda, setticemia, infezioni del sito chirurgico e infezioni urinarie in un cluster a esordio tardivo, con valori mediani rispettivamente di 10.5, 10.5, 13, 17 giorni di distanza dall’intervento e range dell’80% delle osservazioni compresi tra 5 e 26 giorni dall’intervento.
Di grande interesse sia dal punto di vista clinico sia sul piano metodologico si sono rivelate le curve dei tassi di occorrenza: entro il termine del periodo di follow-up considerato, le curve delle complicanze “precoci” hanno già raggiunto valori di plateau mentre quelle delle complicanze “tardive” sono ancora in crescita. «Ciò significa che anche una finestra temporale di 30 giorni qual è quella dell’ACS-NSQIP può omettere una parte degli eventi avversi post-chirurgici» sottolineano gli autori. «E pertanto che la durata dei follow-up è una delle variabili metodologiche che spiegano le spesso considerevoli discrepanze tra i tassi di incidenza rilevati nei diversi studi e dati di registro, soprattutto per quanto riguarda le complicanze a esordio tardivo».
La distribuzione delle complicanze su un periodo post-operatorio relativamente lungo è anche il motivo per cui in questo studio una percentuale consistente di esse, e in particolare di quelle tardive, è risultata essere diagnosticata successivamente alla dimissione, tranne nei casi non infrequenti (il 13,4% dopo ACDF e l’11,1% dopo PLF) di coesistenza di più eventi avversi, in cui la comparsa di complicanze precoci ha determinato il prolungamento dei tempi di ricovero, facendo quindi rientrare in esso anche quelle a esordio più tardivo.
Monica Oldani
Giornalista Tabloid di Ortopedia