A fronte di una graduale riduzione dell’incidenza degli eventi fratturativi in età avanzata, la progressiva espansione della popolazione interessata fa sì che l’impatto sanitario e psico-sociale della traumatologia geriatrica sia destinato a rimanere rilevante per il prossimo futuro, in particolare in rapporto alle condizioni di fragilità ossea.
Su alcuni aspetti della dimensione psico-sociale della vita dei pazienti anziani reduci da una frattura invalidante si è concentrata un’indagine di recente pubblicata dal Journal of the American Academy of Orthopaedic Surgeons che è stata condotta presso il National Health Institute di Bethesda. Attingendo al database del National Health and Aging Trends Study statunitense, gli autori hanno rilevato i livelli di attività e la presenza di sintomi depressivi in un campione di 82 soggetti over 65, di cui oltre la metà ultraottantenni, vittime di una frattura d’anca tra il 2011 e il 2016, verificandone i cambiamenti in ciascuno dei tre anni conseguenti al trauma e confrontandoli con quelli della restante popolazione coetanea censita dal database nello stesso periodo.
Come parametri rappresentativi dei livelli di attività hanno registrato le percentuali di soggetti che uscivano di casa e guidavano l’auto con regolarità, mantenevano un impegno di lavoro o di volontariato e continuavano a svolgere le occupazioni preferite.
I dati emersi hanno rivelato in tutti gli indicatori relativi alla mobilità e all’operosità della popolazione studiata valori significativamente inferiori tra i pazienti con frattura dell’anca, in particolare nel primo anno successivo all’evento: in questo periodo hanno infatti dichiarato di usare di routine l’auto, uscire di casa ed esercitare una mansione lavorativa o volontaria rispettivamente il 76%, l’86% e il 17% dei pazienti contro il 95%, il 99% e il 44% degli altri anziani. Tra i soggetti fratturati inoltre il 44% sosteneva di non poter praticare le attività favorite a causa delle proprie condizioni di salute contro il 18% degli altri e il 20% di sperimentare stati d’animo depressivi contro il 10% degli altri. Viceversa, nel corso del secondo e nel terzo anno di follow up si è registrata una sostanziale attenuazione delle differenze tra i due gruppi di soggetti in tutti i parametri valutati.
Una valutazione del contesto sociale dei pazienti, caratterizzato sulla base del numero di persone frequentate abitualmente (>3 o <2), ha consentito di evidenziare un effetto positivo dei rapporti interpersonali, in particolare sul livello di attività, con percentuali di soggetti coinvolti in impegni lavorativi o di volontariato oppure nelle occupazioni più gradite decisamente superiori nel gruppo con almeno tre frequentazioni. In quest’ultimo, infine, si è registrato un minor numero di comorbidità.
«Pur tenendo conto di alcune lacune di conoscenza, per esempio riguardo alla tipologia delle fratture che hanno interessato i nostri soggetti e ai diversi percorsi riabilitativi da essi seguiti così come alla qualità, oltre che alla quantità, delle loro relazioni sociali, possiamo dire che il nostro studio depone a favore della possibilità che sulle importanti limitazioni alla mobilità e alle attività imposte ai pazienti dall’evento fratturativo nel primo anno vi sia sul più lungo periodo un buon margine di recupero» concludono i ricercatori di Bethesda.
Monica Oldani
Giornalista Tabloid di Ortopedia