Tra l’approccio conservativo e quello chirurgico per le lesioni dello scafoide il secondo è sempre più frequentemente adottato come prima scelta, «a dispetto della scarsità di evidenze che ne documentino i vantaggi, dei rischi connessi con una procedura che è inevitabilmente più invasiva e dei costi sanitari connessi» commentano gli autori dello Scaphoid Waist Internal Fixation for Fractures Trial (Swifft), uno studio da poco pubblicato su Lancet, che ha coinvolto 31 strutture ospedaliere del National Health Service britannico allo scopo di mettere a confronto i risultati clinici dell’immobilizzazione e dell’osteosintesi nel trattamento immediato di queste fratture.
Nelllo Swifft, che è stato progettato per essere un trial di superiorità pragmatico – i cui risultati, cioè, possano essere indicativi dell’efficacia relativa dei due interventi nel contesto clinico reale – sono entrati 439 pazienti con diagnosi radiologica di frattura completa dell’osso scafoide con spostamento minore o uguale a 2 mm effettuata entro due settimane dal trauma, che sono stati assegnati con criterio casuale all’immobilizzazione dell’avambraccio per 6-10 settimane, realizzata secondo la modalità abitualmente utilizzata dal medico di riferimento, o alternativamente all’intervento chirurgico precoce, attuato con accesso percutaneo o a cielo aperto a discrezione dell’operatore.
Il follow-up ha previsto quattro controlli eseguiti a 6, 12, 26 e 52 settimane dall’assegnazione dei pazienti al rispettivo trattamento, con la somministrazione di due scale di valutazione soggettiva, relative a sintomatologia e recupero funzionale e percezione dello stato di salute, la misurazione del range di movimento del polso tramite goniometro e della forza di presa della mano tramite dinamometro di Jamar, la registrazione di eventuali complicanze e dei giorni di assenza dal lavoro imputabile al trauma. Inoltre, oltre che al termine del follow-up, già nel corso dei primi due controlli è stato verificato radiologicamente il livello di guarigione delle fratture, allo scopo di identificare tra i soggetti in trattamento conservativo eventuali casi di mancato consolidamento, per i quali si è quindi posta a seguire l’indicazione all’osteosintesi chirurgica. Nel gruppo dei pazienti trattati con immobilizzazione l’8% è stato sottoposto a osteosintesi in seguito al riscontro radiologico di un insoddisfacente consolidamento della frattura, mentre nel gruppo dei pazienti operati in prima istanza il 4% ha necessitato di un ulteriore intervento.
Nella valutazione conclusiva, a un anno di distanza, non sono emerse differenze significative né per sintomatologia e recupero funzionale, né per tutti gli altri parametri, con l’unica eccezione della percezione dello stato di salute fisica, che è risultato favorevole al trattamento chirurgico. Come prevedibile, il trattamento chirurgico è stato penalizzato da complicanze potenzialmente più rilevanti dal punto di vista clinico.
«Nel nostro studio l’approccio conservativo si è dimostrato altrettanto valido di quello chirurgico e l’assenza per quest’ultimo di un vantaggio anche in termini di giorni lavorativi persi mette in discussione il motivo principale per il quale viene spesso privilegiato, vale a dire l’accelerazione del recupero funzionale – sottolinea il team di ricercatori –. L’immobilizzazione dovrebbe pertanto essere contemplata come opzione preferenziale nel trattamento iniziale delle fratture dello scafoide, riservando l’intervento di osteosintesi ai casi, che ovviamente devono essere identificati tempestivamente, con difficoltà di consolidamento».
Monica Oldani
Giornalista Tabloid di Ortopedia