Sulla strategia di intervento tradizionalmente considerata il gold standard della sostituzione protesica, la revisione in due tempi, sussistono carenze conoscitive alle quali la letteratura scientifica degli ultimi anni sembra voler porre rimedio. In particolare uno studio condotto presso la Mayo Clinic di Rochester, nel Minnesota, partendo dalla nozione che uno degli effetti indesiderati più comuni della revisione in due tempi attuata in protesi totale d’anca fallite per cause diverse dall’infezione periprotesica è la dislocazione, ha voluto verificarne la frequenza nei casi di revisione per causa settica.
«Le ricerche finora condotte sono state per lo più volte a determinare il successo di questa tecnica chirurgica in termini di eradicazione dell’infezione, mentre prevalenza e fattori di rischio della eventuale instabilità della protesi sostitutiva negli anni successivi alla revisione non sono noti» è stata la premessa degli autori. Hanno quindi condotto un’analisi retrospettiva dei casi di revisione in due tempi realizzati nel corso di una quindicina di anni presso la struttura universitaria di appartenenza, il dipartimento di Chirurgia ortopedica della Mayo Clinic, totalizzando 502 pazienti con diagnosi di infezione periprotesica d’anca, osservati per oltre l’80% in follow-up della durata media di 5 anni, e 515 interventi, di cui 52 seguiti da dislocazioni, in molti casi (30 su 52) ripetute.
Quanto alle variabili annoverate nella valutazione dei possibili fattori di rischio per l’instabilità delle componenti sostitutive, solo il sesso femminile e l’occorrenza di precedenti episodi di dislocazione tra quelle preoperatorie – essendo le altre l’età, l’indice di massa corporea e gli eventuali interventi pregressi sull’anca – sono risultati significativamente associati alla complicanza. Più rilevanti alcune delle variabili perioperatorie esaminate: in particolare la presenza nell’articolazione protesizzata di un danno del grande trocantere o comunque di un’insufficienza della muscolatura abduttoria, che aumentano il rischio di ben 30 volte, e quella di una megaprotesi – spesso impiegata proprio nei casi con deficit dei meccanismi trocanterico-abduttori – sei volte più predisposta a instabilità post-revisione. Poco influenti elementi quali il tipo di spacer o il tipo di liner utilizzati nella revisione, l’approccio chirurgico scelto, il diametro della testa del femore.
Favorevole, invece, sebbene l’effetto non abbia raggiunto la significatività statistica, è parso essere il ricorso in sede di revisione a un dispositivo a doppia mobilità, che è andato incontro a dislocazione in meno del 3% dei casi nei quali è stato impiantato (35 in tutto), in confronto alla quota di oltre il 10% verificatasi negli altri casi.
«Ai risultati sulla probabilità di dislocazione, corrispondenti a tassi cumulativi dell’8,9% a un anno di distanza e al 10,5% a cinque anni, vanno aggiunti i dati sui reinterventi resi necessari dall’instabilità delle protesi impiantate con revisione in due tempi» sottolineano in conclusione i ricercatori della Mayo Clinic. «Nella nostra casistica la dislocazione ha aumentato la probabilità di incorrere in un successivo intervento di ben 121 volte e di 13 volte quella di una successiva revisione: in quasi l’80% delle anche revisionate è stata necessaria almeno una procedura chirurgica supplementare».
Monica Oldani
Giornalista Tabloid di Ortopedia