Nel trattamento chirurgico delle infezioni peri-protesiche l’intervento in due tempi è tradizionalmente ritenuto l’opzione di prima scelta rispetto alla sostituzione dell’impianto in un unico tempo chirurgico. Si tratterebbe però di una convinzione errata, almeno secondo una revisione della letteratura realizzata dai ricercatori della Global Infection Orthopaedic Management Collaboration che è consistita in una metanalisi di dati individuali, volta a superare i limiti di generalizzabilità delle conclusioni emerse dalle precedenti revisioni, eseguite su dati aggregati. I lavori inclusi, per un totale di 44 studi di coorte, svolti in 13 diversi paesi tra Nord e Sud America, Europa e Asia in un periodo compreso tra il 2011 e il 2016, e di 1.856 partecipanti, sono stati condotti su pazienti non selezionati con infezione peri-protesica d’anca diagnosticata sulla base dei criteri clinici e di laboratorio stilati dalla Musculoskeletal Infection Society, sottoposti a revisione in uno oppure in due tempi e seguiti in follow-up di almeno due anni per le recidive infettive. I risultati: gli 884 pazienti operati in un unico tempo hanno ottenuto, a dispetto di una maggiore severità del quadro infettivo al momento della diagnosi, tassi di guarigione comparabili a quelli dei 972 pazienti sottoposti a revisione in due tempi. Nel corso dei periodi di follow-up, della durata mediana di 4,2 anni nei casi di intervento in un unico tempo e di 3,3 anni nei casi di intervento in due tempi, si sono infatti registrate in tutto 222 diagnosi di re-infezione, di eziologia analoga o differente rispetto a quella dell’infezione primaria, di cui 88 (pari al 10% dei casi) nel primo gruppo e 134 (pari al 13,8% dei casi) nel secondo gruppo. I dati ottenuti – che sono stati inoltre aggiustati attraverso analisi multivariata per le diverse variabili di confondimento legate alle differenze demografiche e cliniche tra i due gruppi di pazienti – sembrano dunque confutare la supposta superiorità della chirurgia in due tempi e, al contrario, mostrarne una relativa inferiorità in termini rischio di re-infezione, sia pure con valori non significativi.
Tale risultato è stato ulteriormente confermato dalle analisi di sottogruppo che gli autori hanno effettuato per alcune variabili rilevanti sul piano clinico e dal punto di vista cronologico. «In relazione all’outcome da noi indagato le due strategie sono pressoché equivalenti – commentano gli esperti alla luce della loro revisione –. Tuttavia, in considerazione delle usuali implicazioni dell’intervento in due tempi rispetto a quello in un unico tempo – vale a dire il prolungamento della sintomatologia clinica post-chirurgica, della durata del trattamento antibiotico, dei tempi di recupero funzionale e dei periodi di ospedalizzazione, l’incremento della mortalità e l’aumento dei costi sanitari – pensiamo di poter dire che, diversamente da quanto si è affermato per decenni, la scelta della revisione in un tempo è da ritenersi non solo appropriata ma in generale preferibile, anche per pazienti per i quali è stata finora vista come controindicata». Nella popolazione esaminata infatti – e per certi versi inaspettatamente – i soggetti trattati con un intervento singolo sono risultati avere in proporzione maggiore di quelli operati in due tempi indici di baseline clinici e di laboratorio (sierologici e colturali) positivi, nonché infezioni peri-protesiche tardive (a oltre 24 mesi di distanza dalla chirurgia primaria) e quindi di probabile origine ematogena.