In virtù delle sue caratteristiche strutturali e biomeccaniche e della complessità del distretto anatomico di cui è parte, il tendine del complesso gastro-soleo è uno degli apparati tendinei maggiormente soggetti a infortuni e sicuramente il più predisposto a sovraccarico funzionale. Circa il 6% della popolazione generale è colpito in qualche momento della vita da una tendinopatia achillea, che in quasi un terzo dei casi interessa la porzione inserzionale prossima alla tuberosità calcaneare ed è caratterizzata da modificazioni degenerative tipiche: alterazione dell’architettura e dell’integrità delle fibre collagene, infiltrazione grassa, neoangiogenesi.
Riguardo a quale sia nelle forme inserzionali l’approccio terapeutico ottimale non esiste tuttora un consenso unanime, con percentuali di successo per i trattamenti conservativi previsti (onde d’urto, infiltrazioni di Prp, esercizi di stretching eccentrico) che variano dal 40% al 95% e una sostanziale carenza di dati comparativi di efficacia e sicurezza sulle diverse procedure chirurgiche (a carico del segmento osseo, dei tessuti molli o di entrambi) descritte in letteratura.
Recentemente un gruppo di ricerca italo-statunitense, in un articolo pubblicato su Foot and Ankle Surgery, ha valutato esiti e complicanze dell’osteotomia calcaneare secondo Zadek attuata con accesso percutaneo in uno studio retrospettivo su 26 pazienti di età compresa tra 43 e 69 anni affetti da tendinopatia achillea inserzionale unilaterale refrattaria alle opzioni terapeutiche conservative.
L’intervento, eseguito attraverso un’incisione cutanea di meno di 5 mm localizzata anteriormente al tendine e posteriormente all’articolazione astragalo-calcaneare, è consistito, come da schema tradizionale, nella resezione di un cuneo osseo di 5-10 mm a base superiore seguita da osteosintesi.
Ai pazienti, dimessi in giornata con un tutore Walker, sono stati prescritti il recupero del pieno carico a due settimane di distanza con mantenimento del tutore per altre quattro settimane, esercizi di stretching, potenziamento e stimolazione propriocettiva e controlli clinici e radiografici dopo due, sei e dodici settimane e successivamente ogni tre-sei mesi.
Nel periodo di follow-up, durato da sei a 15 mesi, sono stati determinati diversi outcome: le variazioni della sintomatologia dolorosa misurate su scala Vas, il tempo necessario per ottenere la riduzione del dolore, il ripristino funzionale valutato attraverso il Foot Function Index, l’apprezzamento espresso dai pazienti, la comparsa di complicanze. «Sebbene in parte penalizzato da alcuni limiti metodologici, come per esempio il disegno retrospettivo, l’esiguità del campione e la mancanza di un gruppo di controllo – premettono gli autori – il nostro studio ha sortito esiti che depongono a favore della scelta della chirurgia mininvasiva in luogo della procedura a cielo aperto, soprattutto in ragione dell’accorciamento dei tempi di recupero e della minore incidenza di complicanze».
I miglioramenti clinici, statisticamente significativi sia sul piano sintomatico che sul piano funzionale, e l’alto tasso di soddisfazione riscontrati nei pazienti esaminati concordano con quanto riportato in letteratura anche per l’osteotomia convenzionale, ma con la variante percutanea gli autori hanno registrato intervalli di recupero post-operatorio pressoché dimezzati (in media 12 vs 23 settimane), nessuna infezione del sito chirurgico, un caso di dolore persistente localizzato in corrispondenza della testa della vite e un caso di mancato consolidamento.
«L’introduzione dell’approccio mininvasivo consente di rivalutare una tecnica chirurgica come l’osteotomia di Zadek che, per quanto vecchia, ha mostrato ottimi risultati clinici, migliorandone ulteriormente le performance e riducendo il rischio di complicanze infettive – concludono Andrea Nordio e collaboratori –. Il nostro lavoro può servire da input a nuovi studi, possibilmente trial prospettici controllati, che ne confermino i vantaggi».
Monica Oldani
Giornalista Tabloid di Ortopedia