La valutazione pre-operatoria del rischio cardiovascolare tramite test da sforzo è una procedura in declino ma ancora comune nella chirurgia specialistica non cardiologica, a dispetto dell’invito a limitarne il ricorso a casi selezionati espresso già una quindicina d’anni fa dall’American College of Cardiology e dall’American Hearth Association. «Quale sia l’effettivo impatto di tale pratica, che ha avuto la massima diffusione nei primi anni Duemila, sul decorso post-operatorio dei pazienti è, in realtà, tuttora poco noto» sottolinea il gruppo di ricercatori dell’Università di Chicago autore del lavoro recentemente pubblicato da Jama Cardiology.
L’ambito chirurgico esplorato è quello delle sostituzioni protesiche di anca e di ginocchio, un settore in continua espansione e nel quale il tema della stratificazione dei pazienti in relazione al rischio di complicanze è particolarmente sentito.
In un campione di oltre 800.000 soggetti sottoposti a uno dei due interventi di artroplastica in via elettiva tra il 2004 e il 2017 Daniel Rubin e collaboratori hanno quantificato da un lato il numero di test da sforzo preventivamente eseguiti con le varie modalità di indagine previste (esame elettrocardiografico, ecocardiografico, scintigrafico o risonanza magnetica) in generale e in rapporto alla presenza o assenza di un riscontro anamnestico di predisposizione a eventi avversi di natura cardiovascolare, e dall’altro i tassi di infarto del miocardio e arresto cardiaco in rapporto alla presenza o assenza di un test pre-operatorio.
Complessivamente nel periodo coperto dallo studio è stata registrata una progressiva diminuzione del numero di test da sforzo effettuati (nella maggioranza dei casi con metodo scintigrafico), accompagnata tuttavia da un paradossale aumento del ricorso a tali test in soggetti privi di condizioni di rischio cardiovascolare preesistenti accertate secondo i criteri del Revised Cardiac Risk Index (RCRI). Tra i fattori individuali connessi a una maggiore probabilità di esecuzione di test da sforzo sono emersi il sesso maschile, l’età, un punteggio RCRI >0 e la presenza di altre comorbidità.
Quanto all’incidenza di complicanze cardiovascolari nei pazienti con RCRI >0 la valutazione pre-operatoria è risultata del tutto ininfluente. Ad avvalorarne lo scarso valore predittivo è stata poi l’osservazione nei pazienti con RCRI pari a zero sottoposti a test di un tasso di infarto e arresto cardiaco due volte maggiore che in quelli non sottoposti a test.
«È evidente che le linee guida emesse nel 2007 hanno avuto poca efficacia nel migliorare l’appropriatezza prescrittiva rispetto a tale pratica – concludono i ricercatori di Chicago –. Ed è quindi auspicabile che si pianifichino studi idonei a precisarne il più possibile le indicazioni».
Monica Oldani
Giornalista Tabloid di Ortopedia